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Divorzio all’inglese

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Una Gran Bretagna spaccata a metà e che rischia di perdere la Scozia: sarebbe la fine dello United Kingdom, quale eredità più pesante del colossale errore di valutazione compiuto da David Cameron. Un’Europa scioccata e che deve evitare due contagi: la spirale a picco dei mercati finanziari; l’effetto domino politico, con richieste di referendum per l’uscita dall’Unione in Olanda, in Danimarca, in Francia.

Il day after del Brexit è nel segno di una drammatica incertezza. E la realtà è molto semplice: entrambe le parti vi arrivano impreparate. Il governo inglese ha volutamente evitato di mettere a punto un piano di uscita: secondo funzionari britannici con cui ho parlato, l’idea era di non generare dubbi sul “remain”, la volontà di restare in Europa. Il prezzo è molto alto: Londra arriva in ritardo – lacerata e sfocata – al suo appuntamento con la storia.

L’Europa non è in condizioni migliori. Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, continua a dire cose che non aiutano affatto: adesso parla di divorzio “non consensuale”, come se il Brexit, l’abbandono dell’Europa da parte di un paese chiave come la Gran Bretagna, potesse invece produrre una separazione amichevole. Più giusto dire – con il Financial Times – che sarà il divorzio più complicato della storia recente: per i tempi, la posta in discussione, le conseguenze generali sul sistema europeo.

Vediamo rapidamente questi tre punti, allora. Il governo inglese – o meglio ciò che ne resta – non ha nessuna fretta di cominciare. Gli europei non hanno tempo da perdere. Il primo contenzioso, insomma, è sul fischio di inizio, sull’innesco del processo di “exit”. In teoria, l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea prevede tutti i passaggi necessari: è responsabilità del paese che intende lasciare l’Unione di notificare questa sua decisione al Consiglio europeo.

Ma l’innesco vero è politico. David Cameron, dimissionario, intende lasciare quest’onere al suo successore: “non c’è bisogno di affrettarsi” ha commentato infatti Boris Johnson, l’ex-sindaco di Londra che dopo avere vinto la battaglia a favore di Brexit aspira a vincere quella per la premiership. La tentazione britannica, insomma, è di non invocare subito l’Articolo 50, definendo nel frattempo una vera strategia sul post Brexit.

La risposta di Bruxelles è di segno opposto a questo divorzio all’inglese: in una dichiarazione congiunta, i presidenti delle istituzioni comuni hanno invitato la Gran Bretagna a muoversi rapidamente nella direzione indicata dal referendum. Dal punto di vista dell’Ue, ogni rinvio è fonte di dannosa incertezza. Per l’Europa, si tratta quindi di dare un segnale chiaro e sufficientemente fermo, ma sapendo che spetta ai britannici attivare la cosiddetta “clausola di uscita”. È praticamente escluso che questo avvenga già al Consiglio europeo della settimana prossima. Sarà comunque necessario, dopo il referendum consultivo, un passaggio alla House of Commons, dove la maggioranza politica non coincide con la maggioranza della volontà degli elettori e che avrà una voce nel mandato a negoziare il Brexit. Conclusione: se Londra la tirerà troppo in lungo, la tensione aumenterà notevolmente e l’Europa comincerà a muoversi sempre più spesso a 27. Sarà l’Europa priva dei britannici, prima ancora dell’inizio del divorzio.

Da lì in poi, il Trattato europeo prevede due anni, per concludere una complicata separazione. Basteranno? Probabilmente no, anche perché non è chiaro come si combineranno due diversi canali negoziali: quello che riguarda appunto l’uscita vera e propria della Gran Bretagna dal club europeo (le dimissioni annunciate da Lord Hill, commissario britannico, sono solo la punta dell’iceberg di un enorme problema) e quello che riguarda invece i futuri rapporti fra l’UE e lo UK. Anche in questo caso: la parte inglese punta a un negoziato parallelo (nel tentativo di ottenere le condizioni migliori possibili sul post Brexit), la Commissione di Bruxelles – che dovrà ricevere dai ministri europei il mandato a negoziare – punterà a tenere distinti i tavoli.

Francia, Germania ed Italia, nel loro nuovo formato post Brexit, potrebbero favorire un accordo complessivo: tempi di inizio ragionevolmente rapidi, negoziati paralleli. Una impostazione del genere è nel migliore interesse di tutti, britannici ed europei. Ed è un punto di compromesso fra posizioni diverse nell’UE: in particolare, Angela Merkel sembra favorire un approccio più “rilassato” al Brexit, nella doppia convinzione che il caso inglese possa ancora evolvere nel tempo (la differenza la faranno anche i mercati) e che rientri negli interessi economici del Continente arrivare a un accordo di associazione con Londra.

La posta in gioco infatti – questo è il secondo punto – è molto alta per entrambe le parti. Per la Gran Bretagna, lacerata al suo interno e che rischia di perdere dei pezzi, uno degli scenari negativi è di trovarsi fuori dall’UE ma ancora priva di un accordo con il Mercato Unico europeo. A quel punto, infatti, la Gran Bretagna dovrebbe basarsi sui termini dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), perdendo qualunque accesso preferenziale al Mercato europeo. Per l’Europa a 27 – le cui imprese hanno a loro volta un interesse preponderante a un nuovo accordo commerciale con UK – il rischio politico è di non riuscire a “isolare” il caso britannico, evitando una proliferazione di “exit”.

È decisivo che i governi europei diano finalmente i segnali giusti, superando la doppia crisi di fiducia degli ultimi anni: quella fra i governi stessi (innescata prima dalla crisi finanziaria e poi da quella migratoria) e quella fra istituzioni europee e cittadini del Vecchio Continente. Brexit non significa necessariamente l’inizio della disgregazione dell’UE; ma la “lezione inglese”, letta con equilibrio, è che l’Unione europea non può più sperare di vivacchiare, fra mezze decisioni e costanti rinvii. Il mondo interno e il mondo intorno vanno troppo velocemente.

L’Europa del post-Brexit avrà un futuro se l’Unione europea verrà vissuta e percepita dalla gente come uno strumento necessario per la sicurezza dei cittadini europei. La sicurezza economica, la difesa comune, l’immigrazione. L’Europa come fine in sé non interessa più. E l’epoca del “consenso permissivo” (dalle popolazioni alle élites) è cosa del secolo scorso.

Ciò significa – terzo punto – che nel post Brexit i paesi europei dovranno costruire le coalizioni necessarie per progressi veri su questi temi: l’intesa fra Germania, Italia e Francia avrà senso se consentirà di farlo, uscendo dalla paralisi in vista delle molte scadenze elettorali. La riunione dei ministri degli esteri dei 6 paesi fondatori, ieri a Berlino, ha compiuto primi passi in questo senso; ma senza nascondere le divisioni esistenti in una Europa che tende ormai a strutturarsi su forme differenziate di integrazione. L’esito del divorzio inglese sarà importante anche a questo fine; la nascita o meno, e le caratteristiche, di un cerchio più esterno all’Unione.

Al tempo stesso, l’Ue deve rinunciare a una parte di regole inutili e di competenze superflue: sarà anche questo un segnale importante nel dopo Referendum inglese.

L’uscita di Londra ma il risveglio di chi rimane. Vedremo se, nella storia europea, questo 2016 sarà l’inizio della fine o un nuovo inizio.

*English version of this article