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Dipendente ma non troppo: il Sudest asiatico tra Cina e USA

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Sembra inevitabile che i paesi ASEAN finiranno per gravitare nell’orbita cinese: la sfida per loro sarà quella di coltivare rapporti sempre più stretti con la Cina senza diventare troppo dipendenti da Pechino.

La Cina è sempre più presente e attiva nel Sudest asiatico, e la sua rapida ascesa investe vari paesi e settori della regione. L’anello di congiunzione è costituito dalla Belt and Road Initiative (BRI), la nuova Via della Seta, divenuta il biglietto da visita di Pechino (e del presidente Xi Jinping). Si tratta di un’iniziativa di enorme portata e senza precedenti nella storia, presentata per la prima volta da Xi in un discorso tenuto in Kazakistan a settembre 2013 e poi replicato in Indonesia il mese successivo.

Numerosi progetti commerciali – come la costruzione di porti, centrali e reti elettriche, ferrovie, autostrade, parchi industriali, centri commerciali e finanziari, infrastrutture di telecomunicazione e complessi residenziali – sono già in corso, e molti altri ne seguiranno. Data l’urgente necessità di infrastrutture nei paesi disseminati lungo le due rotte gemelle della BRI – quella terrestre eurasiatica e quella marittima attraverso il Mar Cinese meridionale, l’Oceano Indiano e il Mar Rosso – essa è stata generalmente ben accolta dalla maggior parte dei loro governi. Al momento la Cina può vantare il coinvolgimento di più di 60 nazioni nella sua iniziativa pluriennale da 1.000 miliardi di dollari. Il Sudest asiatico fa la parte del leone, dato che tutti i dieci paesi dell’ASEAN (con oltre 600 milioni di abitanti) vi partecipano in qualche misura.



I CORRIDOI DEL SUDEST ASIATICO
. La Via della Seta marittima comprende una serie di zone di cooperazione economica e “corridoi” a sé stanti nel Sudest asiatico: il corridoio Bangladesh-Cina-India-Myanmar, il corridoio economico Cina-Penisola indocinese, il corridoio economico Nanning-Singapore, il corridoio Guangxi Beibu-Brunei, la zona di cooperazione economica del Golfo Pan-Beibu, la zona di cooperazione Lancang-Mekong, e la zona di cooperazione sino-vietnamita dei “Due Corridoi e un Cerchio”.

Tra i progetti più ambiziosi spiccano l’autostrada di 1.800 km da Kunming (la capitale della provincia dello Yunnan) a Bangkok; cinque distinte linee ferroviarie dallo Yunnan alla Thailandia, con un possibile collegamento ad alta velocità di 3.900 km da Kunming a Singapore (passando per Laos, Thailandia e Malesia); grandi opere portuali a Kuantan, in Malesia, e a Kyaukphyu, in Myanmar; e una linea ferroviaria ad alta velocità di 150 km Giakarta-Bandung in Indonesia. Nel settembre 2017 il governo indonesiano ha annunciato che i progetti BRI in quel paese saranno concentrati in quattro aree – le zone del nord di Kalimantan, di Sulawesi, di Sumatra e di Bali – con un investimento complessivo di ben 45,98 miliardi di dollari.

La Malesia ha tratto particolari benefici dalla BRI, con gli investimenti diretti esteri (ide) dalla Cina cresciuti di sei volte dal 2015 e oggi pari a quasi la metà di tutti gli investimenti esteri nel paese. Tra i progetti BRI avviati sotto il precedente governo di Najib Razak figurano il Melaka Gateway (10 miliardi di dollari), il Bandar Malaysia (8 miliardi di dollari), il porto internazionale di Kuala Linggi (2,92 miliardi di dollari), la Robotic Future City di Johor (3,46 miliardi di dollari), il parco industriale e lo sviluppo portuale di Kuantan (900 milioni di dollari), il parco industriale e il complesso siderurgico di Samalaju (3 miliardi di dollari), il progetto di recupero del waterfront di Penang (540 milioni di dollari), il Green Technology Park di Pahang (740 milioni di dollari), il progetto di sviluppo misto di Forest City (100 miliardi di dollari) e l’East Coast Rail Link (13 miliardi di dollari), che attraversa la penisola malese collegando Port Kuantan a est e Port Klang a ovest, con un notevole risparmio di tempo e denaro per gli spedizionieri. Dopo la sua clamorosa vittoria elettorale del maggio 2018, tuttavia, Mahathir Mohamad ha congelato quasi tutti i progetti BRI in attesa di una revisione – e di una probabile rinegoziazione – dei termini degli accordi firmati.

Nonostante la grandiosità della BRI, dovrà passare almeno un lustro prima che gli analisti possano valutare il grado di successo o di insuccesso dell’iniziativa cinese. Nel Sudest asiatico gli scettici non mancano, e in Cambogia, Laos, Malesia, Myanmar e Vietnam c’è chi ne ha già preso le distanze. L’Indonesia e la Thailandia procedono con cautela e guardano al Giappone come alternativa alla monopolizzazione cinese dell’alta velocità ferroviaria e di altri progetti infrastrutturali. Il primo ministro malese Mahathir, come abbiamo visto, è particolarmente scettico. Anche l’India ostenta freddezza, con il governo Modi che si è rifiutato di appoggiare la BRI. Probabilmente l’iniziativa dovrà affrontare nuove sfide e qualche insuccesso strada facendo, ma darà senz’altro anche buoni risultati. Quei paesi chiedono nuove infrastrutture e connettività, e nessuno meglio della Cina è in grado di fornirle.

LA DIPLOMAZIA PERIFERICA. La BRI è sintomatica del nuovo attivismo della Cina nella sua periferia asiatica. Il primo segnale del rinnovato interesse di Pechino per quella regione è arrivato quando il Comitato centrale del Partito comunista cinese (PCC) ha tenuto la Peripheral Diplomacy Work Conference il 24 e 25 ottobre 2013. Il fatto che un argomento del genere fosse trattato in sede di Comitato centrale era decisamente insolito, e dunque rivelatore della sua importanza. Il presidente cinese e segretario generale del PCC Xi Jinping ha presieduto la conferenza e pronunciato un importante discorso al conclave.

Certo, non era la prima volta che i leader cinesi decidevano di mettere la periferia asiatica al centro della diplomazia nazionale; così era stato anche nel 1997, dopo lo scoppio della crisi finanziaria asiatica. Quel periodo (1998-2008) di impegno sul campo nel Sudest asiatico è stato descritto come il “decennio d’oro” dei rapporti Cina-ASEAN. In seguito, tuttavia, Pechino ha seriamente compromesso il buon esito dei suoi sforzi usando il pugno di ferro nell’“anno dell’assertività” (2009-2010), quando ha iniziato a intimidire alcuni dei suoi vicini, prima di tentare una distensione dei rapporti regionali nel 2011-2012. La Peripheral Diplomacy Work Conference del 2013 è stata dunque la spia della nuova priorità assegnata alla regione. A partire da quel momento, Pechino ha intrapreso un’ampia e variegata serie di iniziative regionali non solo in ambito diplomatico, ma anche a livello di sicurezza, culturale e – soprattutto – economico.

Sul piano diplomatico, la Cina e l’ASEAN interagiscono a livello multilaterale nel loro summit annuale (noto anche come ASEAN+1). La XX edizione del vertice, tenutasi a Manila nel novembre 2017, ha segnato l’avvio del processo formale di stesura di un nuovo Codice di Condotta nel Mare Cinese meridionale (che si baserà sul documento quadro concordato in sede di conferenza postministeriale Cina-ASEAN a maggio 2017). Ogni anno svariati leader del Sudest asiatico vengono invitati a Pechino per visite di Stato. L’ex primo ministro malese Najib Razak e il neo rieletto premier cambogiano Hun Sen sono stati ospiti regolari. Inoltre, Xi Jinping ha corteggiato in tutti i modi Aung San Suu Kyi e Joko Widodo dopo che sono diventati capi di Stato rispettivamente del Myanmar e dell’Indonesia, ed essi si sono resi conto che il confronto con Pechino è un imperativo assoluto.

La più importante vittoria diplomatica per la Cina, tuttavia, è arrivata con la tanto sbandierata visita a Pechino del presidente filippino Rodrigo Duterte, nel novembre 2016, quando quest’ultimo ha annunciato la “separazione” del suo paese dagli Stati Uniti e l’inizio di un “rapporto speciale” con la Cina. Spesso le riunioni multilaterali ASEAN sono anche l’occasione per vari incontri bilaterali con il presidente Xi Jinping o il primo ministro Li Keqiang. Tra i 29 leader e 1.500 delegati che hanno preso parte al Belt and Road Forum di Pechino nel maggio 2017 c’erano sette capi di Stato ASEAN. Il Dipartimento internazionale del Partito comunista cinese è inoltre coinvolto in scambi con diversi paesi membri dell’Associazione (in particolare Laos, Malesia, Myanmar e Vietnam).

LA DE-DOLLARIZZAZIONE. Parallelamente all’attività diplomatica, il commercio e gli investimenti sono di gran lunga l’elemento dominante della presenza cinese nel Sudest asiatico. Dal 2009 la Cina è il primo partner commerciale dell’ASEAN, con transazioni per 345,7 miliardi di dollari nel 2015 (esclusi gli scambi via Hong Kong), secondo i dati del segretariato ASEAN.

Il rapporto commerciale ha preso grande slancio nel 2010, quando è stata istituita la China-ASEAN Free Trade Area (CAFTA), che comprende una popolazione di 1,9 miliardi di persone e un volume commerciale di 4.500 miliardi di dollari. Con quell’intesa, la Cina e l’ASEAN hanno concordato l’azzeramento dei dazi sul 90% dei beni scambiati. Entrambe le parti sono oggi impegnate nei negoziati per l’upgrade, avviati nel 2015, e hanno fissato l’obiettivo di 1.000 miliardi di dollari di scambi complessivi entro il 2020.

L’ASEAN è diventato il terzo partner commerciale della Cina (dopo l’Unione Europea e gli Stati Uniti): a primeggiare è la Malesia, seguita da Singapore, Thailandia, Indonesia, Vietnam, Filippine, Myanmar, Cambogia, Laos e Brunei. Gli scambi della Cina con Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam – pur modesti in termini di volume – sono quelli cresciuti più velocemente. Tra i suoi partner commerciali ASEAN, la Cina registra importanti surplus con Indonesia, Singapore e Vietnam. I paesi del Sudest asiatico gestiscono poi sempre più spesso le transazioni commerciali in renminbi.

Gli swap su valute sono già una realtà, e riflettono la comune volontà di Pechino e dell’ASEAN di accelerare il processo di “de-dollarizzazione” promuovendo i pagamenti in valuta locale. Inoltre, la Cina ha messo in campo una serie di prestiti agevolati per i paesi ASEAN: la China Development Bank ha stanziato di recente 10 miliardi di dollari per questo tipo di finanziamenti, il China-ASEAN Investment Cooperation Fund 3 miliardi di dollari, il China-ASEAN Maritime Cooperation Fund 10 miliardi di dollari e il Silk Road Fund 50 miliardi di dollari. Infine, dopo il ritiro degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership (TPP), l’ASEAN e la Cina stanno puntando sulla Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), una sorta di accordo di libero scambio esteso all’intesa regione asiatica tra i dieci membri dell’ASEAN e altri sei paesi dell’area.

Gli investimenti cinesi nei paesi ASEAN hanno pure registrato un’impennata, toccando gli 8,2 miliardi di dollari nel 2015, con uno stock complessivo che a fine 2014 era pari a 123 miliardi di dollari. La Cina è già il primo investitore straniero in Cambogia, Laos, Malesia e Myanmar, e il secondo a Singapore e in Vietnam. Ci si aspetta che nei prossimi anni tali investimenti crescano esponenzialmente, soprattutto sulla spinta della “21st Century Maritime Silk Road” (una delle due direttrici della BRI).

NESSUNO CREDE AL PIVOT AMERICANO. Così, dal 2017 la maggior parte degli Stati del Sudest asiatico, su impulso di Pechino, si sta chiaramente spostando nell’orbita geoeconomica, geopolitica e geostrategica cinese. Certo, il cambiamento non è avvenuto da un giorno all’altro, ma per gradi, e scaturisce dalla convinzione degli attori regionali che il pivot to Asia degli Stati Uniti lanciato a sua tempo dall’amministrazione Obama sia più propaganda che realtà. Il grosso degli Stati del Sudest asiatico riconosce l’utilità pratica dell’avvicinamento alla Cina, e finora non ha subito rappresaglie da Washington per tale motivo.

Sebbene diversi paesi del quadrante sembrino intenzionati a “saltare sul carro del vincitore” e a intensificare i legami con Pechino, e molte autorità regionali parlino di un cambiamento nell’equilibrio di potere tra Cina e Stati Uniti, gli osservatori esterni non dovrebbero sopravvalutare questo trend, né aspettarsi che vada avanti all’infinito. Una serie di fattori potrebbe infatti determinare un futuro allontanamento degli Stati del Sudest asiatico dalla Cina.

Una variabile chiave è data dagli Stati Uniti. Molti osservatori denunciano un’erosione del potere e dell’influenza a stelle e strisce nella regione, ma a mio avviso si tratta di un’impressione sbagliata. Persino sotto la presidenza Trump, dopo un avvio a rilento, gli Stati Uniti stanno continuando a rafforzare i loro legami con Stati e imprese della regione. La presenza americana nel Sudest asiatico a livello culturale, diplomatico, economico e di sicurezza resta senza precedenti; anzi, per molti aspetti è maggiore di quella cinese. Inoltre, dai sondaggi d’opinione emerge un vasto bacino di consenso regionale verso gli Stati Uniti, pur notevolmente ridimensionato dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca (in linea con un trend globale).

Il secondo fattore è la Cina. Pechino può facilmente farsi prendere la mano, diventando troppo esigente e persino dittatoriale nei confronti degli Stati del Sudest asiatico. Già si ravvisano segnali di questo atteggiamento nelle interazioni cinesi con Cambogia, Laos, Malesia, Myanmar e Thailandia. Le popolazioni del Sudest asiatico hanno identità postcoloniali profondamente radicate, e non esitano a reagire alle grandi potenze che cercano di stabilire rapporti asimmetrici e si comportano con arroganza. Le stesse popolazioni serbano ancora vivo il ricordo delle politiche e manovre sovversive cinesi negli anni Sessanta e Settanta, quando Pechino sostenne attivamente le insurrezioni comuniste in ogni singolo paese della regione. Questa diffidenza nei confronti della Cina è particolarmente evidente in Indonesia, nelle Filippine e in Vietnam, anche se agisce per lo più a livello subconscio. La sfida per i popoli del Sudest asiatico, dunque, è quella di coltivare rapporti sempre più stretti con la Cina senza diventare troppo dipendenti da Pechino.

Il terzo fattore è la stessa ASEAN. L’Associazione e i suoi singoli Stati membri sono dotati di una propria autonomia e hanno la capacità di ricalibrare – entro certi limiti – i loro legami esterni. Dico “entro certi limiti” perché il loro livello di dipendenza economica dalla Cina è già elevato, e col tempo non potrà che aumentare. Le popolazioni della regione possono, nel migliore dei casi, solo modulare i loro rapporti economici; non possono sfuggire alla dipendenza. Né la loro prossimità geografica alla Repubblica popolare subirà alterazioni. Ciò nonostante, l’ASEAN non è un soggetto completamente passivo: ha dimostrato di sapersi muovere con abilità, riuscendo a gestire i rischi.

Quarto, le altre medie potenze regionali aiutano l’ASEAN a non rimanere schiacciata nella morsa tra Cina e Stati Uniti. Il Giappone, in particolare, è un player importante nel Sudest asiatico – certamente in termini economici, ma sempre più anche a livello diplomatico e culturale. Tokyo sta potenziando la sua cooperazione in materia di sicurezza con diversi Stati ASEAN. Anche l’India sta rapidamente ampliando la sua presenza nella regione, coerentemente con la politica “Act East” del primo ministro Narendra Modi. Per ragioni di prossimità geografica, sicurezza e commercio, l’Australia si considera un partner speciale del Sudest asiatico. Persino la Russia sta tentando di assumere un ruolo più rilevante nella regione.

Così, nonostante l’evidente spostamento gravitazionale del Sudest asiatico verso la Cina, sarebbe bene non affrettare le conclusioni. I quattro fattori sopra descritti, singolarmente o congiuntamente, potrebbero alterare quella che è l’attuale spinta gravitazionale della regione.

*Articolo tratto da Aspenia 82