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Croazia e Slovenia dopo la prova elettorale

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La domenica elettorale del 4 dicembre ha travolto i governi in carica nelle ex repubbliche jugoslave di Croazia e Slovenia. In entrambi i casi, è stato un voto all’insegna del cambiamento e del pragmatismo. In Croazia, il partito fondato dal primo presidente del paese Franjo Tuđman ha perso il potere dopo vent’anni di dominio quasi ininterrotto della scena pubblica. In Slovenia, il compito di formare un nuovo governo sarà affidato all’outsider Zoran Janković, a capo di una lista personale nata poco prima delle elezioni, capace di imporsi a sorpresa sui partiti tradizionali.

Kukuriku (letteralmente chicchirichì, dal nome del ristorante sede della prima riunione, e richiamo simbolico a un risveglio della coscienza civile) è il nome della coalizione di quattro partiti che ha vinto le elezioni politiche croate. L’alleanza costruita dal futuro premier Zoran Milanović, espressione del partito socialdemocratico (SDP), governerà il paese in un periodo cruciale: la Croazia entrerà nell’Unione Europea a metà del 2013, dovendo affrontare nel frattempo una dura crisi economica, il cui impatto sulla vita dei cittadini è drammatico: recessione ancora in corso, disoccupazione attorno al 17%, debito pubblico fuori controllo.

“Lavorerete più duramente, per più ore, per più anni”: Milanović ha sintetizzato senza mezzi termini il programma lacrime e sangue che il paese adotterà al più presto; la cura anticrisi era stata rimandata dal precedente governo, che travolto da scandali e arresti aveva preferito non irritare ulteriormente l’elettorato. Inoltre, in febbraio, il nuovo esecutivo si troverà a gestire il referendum nazionale sull’ingresso nell’UE. La Croazia è diventata il più euroscettico tra i candidati all’allargamento, per la difficoltà del processo negoziale e perchè i benefici economici sembrano meno vantaggiosi di un tempo: un’affluenza troppo scarsa alle urne potrebbe indebolire Milanović. Tuttavia, il suo governo potrà contare sulla maggioranza assoluta alla Dieta di Zagabria e sul sostegno politico del presidente della Repubblica Ivo Josipović, anch’egli proveniente dall’SDP.

Il partito sconfitto, l’Unione Democratica Croata (HDZ) al potere dal 1990 al 2000 e dal 2003 a oggi e protagonista di primo piano della guerra del 1991-95, ha pagato l’incancrenirsi di un clientelismo endemico e il logoramento dei meccanismi del consenso. Il loro opaco funzionamento, sempre meno tollerato dall’opinione pubblica in tempi di crisi economica, è finito infine al centro delle indagini della magistratura. L’ex premier (2003-09) Ivo Sanader è stato arrestato lo scorso anno in Austria – dove era fuggito poco prima della sospensione della sua immunità parlamentare – e poi estradato.

Le finanze e i beni immobili di Sanader, così come quelli intestati all’HDZ, sono sotto sequestro: un fattore non secondario nella sconfitta elettorale, se si considera che il partito fondato da Tuđman ancora recentemente era stato capace di imporsi nelle elezioni amministrative, grazie al radicamento tra funzionari di imprese pubbliche, ex combattenti, rifugiati all’estero e vari beneficiari delle privatizzazioni (pur scontando un arretramento nelle aree urbane). Jadranka Kosor, attuale presidentessa del partito, si troverà ad affrontare nei prossimi mesi una non semplice rifondazione politica.

Zoran Milanović è stato premiato dalla voglia di cambiamento espressa dalla cittadinanza: sarà lui a dover curare la profonda sfiducia che oggi i croati vivono nei confronti della politica e delle istituzioni; nelle dimostrazioni svoltesi quest’anno, i manifestanti hanno bruciato indistintamente le bandiere dei partiti e dell’UE. Tra i più scontenti della sua vittoria va menzionato l’esecutivo ungherese di Viktor Orbán: l’HDZ, oltre che ideologicamente vicino al partito di Orbán, aveva stipulato un certo numero di accordi commerciali per consentire l’ingresso di capitali ungheresi nelle imprese pubbliche croate. Non è detto che il nuovo governo manterrà questi accordi, oggi oggetto di indagine giudiziaria.

Il risultato elettorale rallegra comunque molti dei paesi dell’Unione Europea: si ritiene generalmente che l’atteggiamento del nuovo premier, un brillante diplomatico formatosi in Europa Occidentale durante gli anni della guerra contro la Serbia, sulle tante questioni etniche e di confine ancora aperte tra la Croazia e i suoi vicini sarà sicuramente più pragmatico rispetto al passato, e contribuirà alla distensione di un’area da sempre molto “calda”. Non è strano che proprio in Serbia i media salutino con grande soddisfazione la perdita del potere dell’HDZ, e il governo (che comprende un partito della minoranza croata) si sia congratulato col vincitore per la sua promessa di normalizzare le relazioni tra i due paesi.

Le trattative  per l’adesione all’UE della Croazia – ormai concluse, con la firma del Trattato durante l’ultimo Consiglio Europeo – hanno subito dei ripetuti rallentamenti per due ordini di motivi. Da un lato, un gruppo di paesi guidato dalla Francia ha protestato per gli scarsi progressi in materia di sistema giudiziario e controllo delle frontiere; in realtà, si temeva che la Croazia firmasse troppo presto gli accordi di Schengen sulla libera circolazione, inondando i paesi dell’Eurozona di manodopera a basso costo e scatenando (a pochi mesi dalle presidenziali francesi) una nuova sindrome dell’”idraulico polacco”. Inoltre, l’ingresso della Croazia nell’Unione fungerebbe da locomotiva per l’ingresso degli altri candidati dell’area (Macedonia, Montenegro, Serbia): paesi che essenzialmente gravitano nell’orbita economica tedesca (e italiana). Parigi non vuole che ciò accada troppo in fretta.

D’altro canto, la Slovenia, membro dell’UE dal 2004, ha sfruttato il suo potere di veto per bloccare i negoziati fino alla risoluzione della disputa sui confini marittimi tra i due paesi nel golfo di Trieste. Durante i due anni di stallo (2008-10) il governo socialdemocratico di Borut Pahor ha minacciato di boicottare anche l’adesione croata alla NATO; a Bruxelles, la posizione croata è stata invece difesa con determinazionae dalla CDU tedesca. I due paesi sono infine giunti alla firma di un arbitrato che sarà implementato sotto il controllo delle Nazioni Unite. In Slovenia, il tentativo condotto da alcune formazioni nazional-conservatrici di stoppare l’accordo mediante referendum popolare è stato bocciato di misura dall’elettorato.

Il voto di domenica ha segnato la sconfitta di uno dei protagonisti di questo scontro: Pahor ha visto scendere i consensi per il proprio partito dal 30 al 10%. Benchè i sondaggi pronosticassero una facile affermazione del centro-destra, la tornata è stata invece vinta da una lista personale dalle tinte social-liberali creata solo quaranta giorni prima dal sindaco di Lubiana e imprenditore alimentare Zoran Janković. Il leader di Slovenia positiva, che sarà obbligato a formare un governo di coalizione con altre formazioni di centro-sinistra, ha promesso al suo popolo una crescita economica del 4% annuo e la riduzione del deficit di bilancio al 3%. Un impegno complicato da mantenere: per quanto il livello di disoccupazione non sia drammatico come in Croazia, la Slovenia nel 2009 ha sofferto il maggior calo del Pil di tutta l’Eurozona (-8%), senza riuscire successivamente a riprendersi.

Negli ultimi diciotto mesi le relazioni tra Slovenia e Croazia sono decisamente migliorate: l’accantonamento delle dispute di confine ha favorito l’emergere di uno spirito pragmatico che non solo ha influito sui risultati elettorali, ma ha anche consentito una sostanziale crescita degli investimenti tra i due paesi (soprattutto da parte croata). È il clima auspicabile per una collaborazione più efficace sia a livello politico che economico tra i paesi di tutta l’area, come prova di un rapporto stabile che dovrà essere coltivato nell’ambito dell’UE.