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Cosa ci dice il Piano Trump sul sistema internazionale

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 Il “deal” voluto da Donald Trump fra Israele ed Hamas, a due anni dal 7 ottobre, dice molto sull’attuale struttura del sistema internazionale. E’ solo una prima fase, e non è affatto detto che la seconda funzioni. Ma ne derivano indicazioni importanti sugli equilibri regionali e sul peso delle singole potenze.

 

Primo: gli Stati Uniti, considerati isolazionisti e in ritiro, restano comunque la “nazione indispensabile”, per tornare a una nota definizione di Madeleine Albright. La potenza senza la quale non c’è accordo possibile di questo tipo. Vedremo se funzionerà, i dubbi sul futuro sono parecchi e sono fondati; ma per ora il passo sostanziale verso un cessate-il-fuoco (cosa diversa dalla pace) è venuto da Washington. L’Europa non ha neanche sfiorato la palla – non ha fatto sue proposte nonostante sia da sempre un grande donatore a favore dei palestinesi e un partner importante di Israele. In ordine sparso e parziale ha riconosciuto lo “Stato palestinese”, con effetti praticamente nulli sulla vicenda in corso.

Secondo: i mediatori sono Qatar, Egitto e Turchia, potenze regionali in rapporti solidi con Washington ma anche con un loro raggio di influenza, in un mondo à la carte. L’appoggio al piano Trump dei paesi arabi è stato un ingrediente decisivo. E aumenta il suo peso, dopo la caduta di Assad in Siria, la Turchia di Erdogan.

Terzo: Israele non può sottrarsi – ne dipende troppo – alla volontà di Washington, che sta agendo in evidente ritardo ma agendo. Nel calcolo americano, ripristinare la deterrenza rispetto all’asse fondato sull’Iran e i suoi proxy era indispensabile, nel post-7 ottobre. A qualunque prezzo per una popolazione palestinese diventata nei fatti “scudo umano” di Hamas. L’approccio è cambiato solo dopo l’attacco israeliano in Qatar (9 settembre), che ha innescato una decisa reazione americana. Washington punta a salvaguardare i propri interessi regionali (fra cui la principale base militare in Medio Oriente) e a sviluppare lo schema immaginato nel primo mandato di Trump: un accordo fra Israele e regimi arabi, Arabia Saudita inclusa, come chiave di un assetto regionale favorevole agli interessi economici e strategici degli Stati Uniti. E’ la riproposizione aggiornata dello schema degli Accordi di Abramo. E dell’idea di costruire, isolando un Iran fortemente indebolito e contenendo la Cina sul teatro medio-orientale, nuove vie di connessione fra Asia (India) e Occidente attraverso il Mediterraneo allargato. Con tutte le implicazioni del caso in materia di energia, commercio, sviluppo delle reti marittime.

Quarto: la coerenza di posizioni non è rilevante, per Trump. Può dire tutto (la riviera di Gaza, l’espulsione dei palestinesi) e il contrario di tutto (no all’annessione israeliana e all’occupazione, sì a un’amministrazione provvisoria). L’unica cosa che conta è il risultato – immediato o provvisorio che sia, ma pur sempre un risultato.

Quinto: la politica estera degli Stati Uniti è fatta dal presidente, da suoi collaboratori che non vengono dai ranghi della diplomazia professionale (l’inviato Steve Witkoff, il genero Jared Kushner) e senza il Dipartimento di Stato. Il ruolo di Marco Rubio (al vertice di quel Dipartimento) è di stato di scrivere un post su Truth firmato Trump per annunciare un accordo che non ha direttamente negoziato.

Sesto: la Russia, già indebolita dall’evoluzione in Siria, ha finito per accodarsi all’America. L’Europa anche, dopo posizioni altamente simboliche e di protesta. Il fatto che Parigi, in piena crisi politica, convochi una riunione dei ministri degli esteri per discutere ex-post del Piano Trump fotografa l’attuale marginalità europea in Medio Oriente. Poi verremo messi alla prova, con una eventuale ricostruzione: la vecchia massima – payers not players – sembra ancora attuale. Vedremo se sapremo fare qualcosa di meglio in Ucraina, dove non è escluso che l’America ci lasci col cerino in mano. Trump ha detto ormai varie volte che la guerra in Ucraina si sta dimostrando la più difficile da risolvere, aggiungendo però che non la considera un teatro prioritario per gli Stati Uniti. Se ottenesse davvero il risultato che spera in Medio Oriente, il presidente americano potrebbe decidere che ha compiuto la sua missione, alle periferie dell’Europa ci pensino gli europei. Washington si limiterà a forniture di armi che dovremo comprare come Paesi NATO per destinarle in larga parte a Kiev. D’altra parte, Trump sembra anche avere concluso che non gli conviene concedere una vittoria a Vladimir Putin sul fianco Est dell’Alleanza occidentale. Lo spazio europeo è di fatto conteso.

Infine ma certamente non in ultimo: i palestinesi di Gaza festeggiano il possibile cessate-il-fuoco dopo due anni drammatici. Sono molto più in grado di giudicare la realtà rispetto ad una schiera di esperti che criticano il Piano americano non perché potrebbe fallire – è una probabilità che esiste ed è molto elevata – ma perché viene da Trump. E quindi a prescindere.

Vedremo in tempi rapidi se la fase uno si concretizzerà e porterà poi alla “fase due” dei famosi 20 punti. Se uno dei risultati fosse di mandare in frantumi l’attuale coalizione di governo israeliana sarebbe un vantaggio per il futuro. Benjamin Netanyahu può soltanto ricollocarsi, in vista delle elezioni del 2026. Naturalmente, tutto dipenderà dal disarmo effettivo di Hamas, dalla sequenza del ritiro israeliano dopo il ritorno degli ostaggi e la liberazione dei prigionieri palestinesi, dalle difficoltà della transizione a una amministrazione provvisoria che è difficile immaginare, così come è difficile immaginare una situazione di sicurezza. Il diavolo è nei dettagli ma questi non sono dettagli. Si può in fondo sostenere questo: proprio la vaghezza del piano in 20 punti ha permesso oggi un primo accordo; ma domani ne renderà assai complicata l’attuazione.

Soprattutto, conterà la capacità delle due parti di tenere sotto controllo le rispettive spinte più estreme. Dall’assassinio di Rabin (trent’anni fa, era il 1995) all’attacco mortale del 7 ottobre 2023, alle sue conseguenze, il prezzo è stato altissimo, per Israele e per i palestinesi. Potranno trovare un modo per coesistere solo recuperando misura e ragione nelle scelte politiche. Sapendo che la “grande Sparta” vagheggiata da Netanyahu non sarà mai una vera soluzione per Israele. E che, per la popolazione palestinese, sottrarsi all’abbraccio mortale di Hamas è la condizione per vivere.