Come definire la minaccia cinese
L’idea che i liberi commerci avrebbero trasformato dall’interno la Cina, rendendola più simile alle liberal-democrazie occidentali, si è rivelata almeno per il momento un fallimento. Il vecchio dispotismo asiatico, che ha un suo degno rappresentante nel Partito comunista cinese, ha di fatto dirottato il processo di transizione e usato la ricchezza prodotta dall’apertura del paese all’economia internazionale per acquisire maggiore forza da utilizzare per aumentare il proprio consenso e la propria capacità di controllo sul paese.
Così, nel tempo, le liberal-democrazie hanno preso atto di questo dato di fatto e la Cina è passata da partner a competitor, fino a divenire una minaccia. Ed è qui che sono iniziate una serie di analisi che con l’avvento della minaccia cinese segnalano il ritorno, con un certo sollievo, delle chiare e prevedibili logiche della guerra fredda. Ma siamo davvero sicuri che il confronto sempre più duro che si va profilando tra Stati Uniti e Cina possa essere assimilato a quello tra che ci fu tra Stati Uniti ed Unione Sovietica?
La minaccia sovietica era di tipo sistemico. Mosca incarnava la possibilità dell’esistenza di un modo diverso di governare l’umana famiglia. Era anzi l’idea che esistesse una formula di gran lunga superiore rispetto a quella occidentale in grado di assicurare maggiore prosperità, maggiore libertà e maggiore giustizia sociale. La manifestazione concreta di questo dato di fatto la si coglie nell’esistenza di partiti politici, movimenti sindacali, schiere di intellettuali e di media che anche nei paesi occidentali si schieravano dalla parte di Mosca e svolgevano il ruolo di persuasori permanenti per aumentare il consenso a favore degli ideali del comunismo. In sintesi, quello che veniva da Mosca era un messaggio universale di liberazione valido per tutti i popoli sotto ogni cielo e a ogni latitudine. Al contrario, da Pechino non viene nulla di tutto ciò.
Per un certo periodo, la Cina ha provato a presentare l’esperimento cinese, vale a dire il tentativo di far convivere economia di mercato (con tutti i ‘se’ del caso) e autoritarismo, come un modello vincente da esportare nel mondo, e così lo ha presentato soprattutto ai paesi che in questi anni non sono riusciti a cogliere i frutti della globalizzazione, in particolare i paesi africani e quelli latino- americani. Un tale messaggio ha convinto qualche regime autoritario in giro per il mondo, ma non ha scaldato di certo i cuori di milioni di persone né ha portato alla formazione di quinte colonne interne che si schierano apertamente dalla parte di Pechino e che lavorano permanentemente per aumentare il consenso a favore della causa cinese.
Per dirla diversamente, mentre migliaia di persone sono disposte a rischiare la vita attraversando il Mediterraneo per arrivare in Europa, o il Rio Grande per arrivare negli Stati Uniti, non mi risulta che lo stesso accada lungo i confini cinesi, o quelli russi o quelli turchi. In questo senso, si può dire che i flussi migratori sono un modo attraverso il quale migliaia di persone votano con i piedi dimostrando la loro preferenza circa i luoghi nei quali ambire a vivere, rischiando per questo la vita stessa. E quelle persone non stanno affatto scegliendo il “modello cinese”.
C’è di più, le autorità del Partito comunista cinese sono riuscite a bloccare il processo di transizione innescato con le aperture di Deng Xiaoping e impedire che la goccia dell’economia potesse scalfire la pietra dell’autoritarismo politico. Lo hanno fatto una prima volta, nel 1989, con i carri armati in Piazza Tienanmen in maniera plateale e lo hanno continuato a fare negli anni successivi reprimendo con la forza qualsiasi voce di dissenso – come nel caso di Liu Xiaobo, l’autore di “Charta 08”, un appello alla libertà ispirato alla “Charta 77” di Václav Havel. Nel 2010 Liu è stato insignito del premio Nobel per la Pace. Premio che non ha mai ritirato perché dal 2008 era in carcere, dove è restato fino alla morte il 13 luglio del 2017. Il partito unico, dunque, è riuscito a bloccare il dissenso e qualsiasi pressione per maggiori libertà, tanto che Liu Xiaobo sembra oggi dimenticato da tutti.
Tuttavia, la vittoria nel bloccare qualsiasi movimento di dissenso ed impedire che le aperture fatte in campo economico e sociale possano avere anche implicazioni a livello politico, non garantiscono di certo la tenuta del modello cinese. Anzi non è affatto detto che questo sistema, autoritario in politica e aperto in economia (con tutti i “se” e i “ma” del caso) possa davvero continuare a produrre ricchezza e dar vita a un sistema economico autopropulsivo. Difficile cioè fare così della Cina non un assemblatore di giocattoli, che cresce sulla base del basso costo della propria manodopera, ma un’economia che cresce sulla base della ricerca scientifica e dell’innovazione prodotta dalle menti dei propri cittadini, lasciate libere di esplorare l’infinito mondo del possibile.
Per dirla diversamente, è possibile che le autorità cinesi abbiamo trovato il modo di rimanere al potere, ma è francamente impossibile che stiamo sperimentando una formula nuova che possa essere migliore del combinato di Stato di diritto ed economia di mercato, nel produrre sviluppo economico. Questo significa che è veramente difficile che Pechino possa presentarsi come l’alfiere di una nuova formula, di una nuova soluzione valida per tutta l’umana famiglia, che sia in grado di produrre maggiore ricchezza, una più forte giustizia sociale e offrire a tutti i popoli una via per crescere e prosperare fuggendo dalla povertà.
In sintesi, non stiamo assistendo al ritorno di una nuova guerra fredda per più di una ragione: perché Pechino non è Mosca; perché l’autoritarismo cinese non è il messaggio universale di liberazione del comunismo che ha scaldato i cuori di milioni di persone in giro per il mondo; e perché a breve potrebbe dimostrarsi che il caso cinese non è affatto una storia di successo economico e prosperità, ma una macchina che sta in piedi con la repressione e che potrebbe essere dilaniata dalle faide interne.
Tra collasso e ibernazione
La Cina, dunque, non può essere considerata una minaccia sistemica e questo perché, come si è detto, non incarna un sistema totalmente altro rispetto alle liberal-democrazie ad economia di mercato, ma è un accrocco formato da pezzi di diversi sistemi che di fatto rendono il paese schizofrenico.
Da una parte, infatti, c’è il partito unico, che vive grazie alla chiusura e al controllo; dall’altra c’è il sistema economico che può crescere solo grazie all’apertura e alla libertà. Se dunque non è una minaccia sistemica allora che cos’è?
Andiamo con ordine. Quello cinese, nonostante le apparenze, è un sistema fragile e instabile, proprio perché è il risultato di una serie di assemblaggi di pezzi che funzionano l’uno in maniera diversa dall’altra (la politica cinese ha bisogno della chiusura, mentre la sua economia ha bisogno dell’apertura, per riprendere l’esempio che si diceva poc’anzi). C’è di più, la presidenza di Xi Jinping, accentrando il potere in una sola persona e gettando alle ortiche tutte le norme che regolavano la successione da una generazione all’altra, ha creato delle condizioni tali che la lotta tra le diverse fazioni all’interno del partito potrebbe in futuro tramutarsi in guerra civile.
Ed è proprio da questa incredibile fragilità di un paese immenso, che è ai vertici dell’economia globale, che viene la prima minaccia. Che cosa accadrebbe in caso di una lotta politica interna che potrebbe tramutarsi in una guerra per bande tra le diverse fazioni all’interno del paese? E ancora, che cosa accadrebbe se l’attuale sistema di potere dovesse collassare?
C’è anche un’altra ipotesi, per certi versi alternativa a quella del collasso, e si tratta dell’ibernazione. Il partito unico per poter sopravvivere ha bisogno della chiusura e di un sistema di controllo che imbrigli il Paese e blocchi qualsiasi dissenso. Questo non può che essere in contrasto con le esigenze dell’economia, che ha bisogno di libertà e apertura per poter crescere e innovare. Se, come sembra, le logiche della politica dovessero avere il sopravvento sulle esigenze dell’economia, allora il paese potrebbe chiudersi sempre più, il che causerebbe un calo della crescita economica: la Cina vedrebbe così sfumare lentamente i propri sogni di ricchezza e prosperità. Si tratterebbe di un ritorno al passato, come accadde, giusto per fare un esempio, a partire dagli anni Trenta del Quattrocento, quando, dopo le grandi spedizioni navali dell’ammiraglio Zheng He, le porte della Cina furono chiuse, tenendo fuori il resto del mondo, finché gli inglesi nel 1839 non presero a cannonate quelle porte. Quali sarebbero le ripercussioni a livello internazionale di un’economia come quella cinese che piano piano si spegne? Quali sarebbero le ripercussioni internazionali di un sistema politico cinese che, come già accade, darebbe la colpa dei propri affanni e delle proprie difficoltà a complotti orditi da potenze straniere? Ci potremmo ritrovare a dover gestire una Cina chiusa, più povera, rancorosa e revanscista, che potrebbe diventare il centro da cui si propagano a livello globale ondate di instabilità politica ed economica.
Correre avanti per tornare indietro
I due casi sin qui richiamati, e cioè l’ipotesi che il sistema politico cinese possa implodere o che il paese possa ibernarsi, rappresentano a livello politico ed economico un tipo di minaccia che potremmo definire di tipo passivo. Ma Pechino può rappresentare anche una minaccia di tipo attivo, sia a livello regionale che a livello globale.
Le questioni territoriali sono la prima fonte di attrito tra la Cina e i paesi dell’Indo-Pacifico, sia lungo i confini terrestri (India) sia, soprattutto, sul fronte marittimo. In particolare, Mar cinese meridionale, Mar cinese orientale e soprattutto Taiwan. Ora, se è vero che in queste dispute territoriali c’entrano (molto limitatamente, a parere di chi scrive) anche questioni di tipo economico (giacimenti petroliferi e minerari, risorse ittiche) e strategiche (l’accesso all’alto mare, oltre le due catene di isole) l’elemento che rende potenzialmente esplosive le controversie e irrigidisce a tal punto le parti da rendere quasi impossibile una soluzione negoziale è l’aspetto simbolico, che si lega al “secolo delle umiliazioni” (il XX) e quindi al nazionalismo cinese.
Per dirla in breve, le leadership cinesi leggono la storia del paese dal 1921 in poi come il tentativo di riportare la Cina al centro del mondo e al vertice delle potenze mondiali, per non poter più subire le umiliazioni patite a partire dalla Prima guerra dell’Oppio. Parte essenziale di questa enorme opera di restaurazione è riportare sotto la piena sovranità cinese quei territori che la retorica nazionale ritiene siano stati strappati con la forza e con l’inganno dalle potenze coloniali.
Del resto, oggi la fonte della legittimazione del partito consiste proprio in questo. A differenza del recente passato, quando il Partito comunista cinese si presentava come l’agente che avrebbe garantito ai cittadini cinesi ricchezze che mai avevano avuto nella loro storia, oggi esso si presenta come l’unico attore in grado di riportare indietro le lancette della storia e ricostruire il vecchio orgoglio han, vendicando il paese per i torti subiti.
In sintesi, l’attuale leadership cinese sta al potere perché ha promesso ai propri cittadini di lavare l’onta subita nei secoli da parte delle potenze occidentali e dal Giappone, rimarginare le antiche ferite territoriali e spezzare i bastoni che – sostiene la macchina della propaganda del partito – le potenze dominanti stanno gettando tra le ruote della Cina per fermarne l’ascesa. Pertanto, se la Cina dovesse perdere Taiwan, vorrebbe dire che tutto quanto quello che la leadership cinese ha fatto sinora, in termini di crescita economica e di influenza politica, è stato del tutto vano; non è servito a portare indietro le lancette della storia ed evitare che il paese venisse nuovamente umiliato.
Tutto ciò irrigidisce totalmente la posizione cinese e rende impossibile qualsiasi mediazione con gli altri attori dell’Asia-Pacifico. Cedere su un solo scoglio o banco di sabbia nel Mar cinese meridionale significherebbe fare collassare come un castello di carta l’intera narrazione su cui si regge oggi il Partito comunista cinese, e significherebbe dire ai propri cittadini che tutto quanto è stato fatto negli ultimi cento anni, non è servito a nulla, visto che la Cina continua a subire il diktat delle altre grandi potenze.
Ovviamente, stesso discorso vale, elevato a potenza, per Taiwan. Se dunque l’obiettivo storico della leadership cinese è quello di lavare l’onta subita durante il secolo della umiliazione e ripotare indietro le lancette della storia per ricreare quell’ordine regionale (con ambizioni euroasiatiche) di cui la Cina era il vertice, allora questo vuol dire che Taiwan ha un valore simbolico enorme, di gran lunga superiore rispetto agli scogli e banchi di sabbia del Mar cinese meridionale e orientale, o rispetto alla stessa Hong Kong che è già sotto il controllo cinese. Per Pechino, la conquista di Taiwan significa chiudere definitivamente con una storia traumatica, significa rimarginare una ferita secolare (il Trattato di Shimonoseki del 1895) e dichiarare chiuso il doloroso capitolo degli smembramenti territoriali.
In sintesi, la Cina vuole Taiwan per ragioni di tipo ideologico. Ricucire quella ferita significa concludere un ciclo della storia cinese, che ha avuto inizio con l’invasione delle potenze occidentali. Al contrario, perdere Taiwan significa che da allora nulla è cambiato e che la Cina è ancora in balia di potenze straniere, il che equivarrebbe a dire che il partito ha fallito nella sua missione storica e che non ha più una fonte salda di legittimazione in grado di giustificare la sua permanenza al potere.
Tutto ciò, per converso, vuol dire che non vi sono prevalenti ragioni di tipo economico né di tipo tecnologico e neppure di tipo strategico. Le aziende taiwanesi sono presenti da decenni in Cina, garantendo sia investimenti sia quel trasferimento tecnologico che alla dirigenza cinese interessa sin dai tempi del “Movimento dell’Autorafforzamento” negli ultimi decenni del XIX secolo, sotto la dinastia Qing. Del resto per la Cina, come per qualsiasi altro paese, è molto più conveniente acquistare la tecnologia di cui ha bisogno o le aziende più promettenti, anziché scatenare una guerra regionale per poter conquistare Taiwan (ammesso e non concesso che poi le aziende non delocalizzino altrove).
D’altro canto, questo significa che l’isola non interessa a Pechino in modo particolare per la sua posizione strategica (stesso discorso vale per le isolette, gli scogli e i banchi di sabbia nel Mar cinese orientale e nel Mar cinese meridionale) o perché funzionale alla politica di rafforzamento del potere navale cinese. La Marina militare cinese ha basi navali lungo tutta la costa orientale e la conquista di Taiwan non aggiungerebbe di molto alla capacità di proiezione che Pechino ha già acquisito con il varo delle sue due portaerei.
In quest’ottica si può dire che in ballo non ci sono fattori strettamente materiali (tecnologia, armamenti, vantaggio strategico) ma fattori prettamente immateriali e simbolici, che però si legano a qualcosa di molto concreto, vale a dire la legittimazione del Partito comunista cinese e la sua permanenza al potere.
La logica delle transizioni
È difficile dire quale delle due diverse tipologie di minacce che la Cina pone al sistema internazionale, se quella attiva, o quella passiva, sia la più pericolosa. Certo si può dire quale si rivelerebbe maggiormente densa di incognite, e cioè il collasso del sistema politico che attualmente governa il paese. Il che impone di ragionare sulle logiche che governano i processi di transizione da sistemi autoritari a partito unico alle liberal-democrazie.
Negli anni della guerra fredda riguardo ai processi di decolonizzazione era abbastanza diffusa l’idea che quanto più era travagliata la transizione verso la piena indipendenza di un paese, tanto maggiore era la possibilità che forze filo-sovietiche prendessero il potere. È possibile elaborare una riflessione simile per quanto riguarda il passaggio dalle società chiuse alle società aperte? Forse sì, ma è necessario essere molto accorti e ragionare sulla base di qualche esempio.
Se prendiamo il caso italiano, con il passaggio dal fascismo alla repubblica, si può fare qualche riflessione interessante. In primo luogo, riprendendo la lezione di Renzo De Felice, il fascismo aspirò a essere un sistema totalitario ma incontrò dei limiti oggettivi nella Corona e nella Chiesa Cattolica, che impedirono che il fascismo fagocitasse del tutto lo Stato e la società civile. C’è di più, la Resistenza ebbe un carattere fondante, non solo in termini di valori, generando una fonte di legittimazione che nulla aveva a che fare con il passato regime, ma anche offrendo una classe dirigente, che poté costruire la Repubblica.
Per certi aspetti, diversi sono i casi del Giappone e della Germania. Nel primo caso, l’imperatore, del tutto compromesso con il militarismo nipponico, non poteva essere l’istituzione fondante di un paese libero e democratico. La funzione di transizione e di fondazione delle nuove istituzioni in quel caso viene svolta dalle forze armate americane. Stessa cosa accade anche in Germania, con un ruolo importante svolto dalle forze di occupazione alleate, sebbene in modo più sfumato, vista la presenza di un passato liberal-democratico al quale era possibile riconnettersi (il partito socialdemocratico e quello cattolico).
Altro caso interessante è quello spagnolo con l’uscita dal franchismo. Là è la Corona a fornire gli uomini, le istituzioni e la legittimazione necessaria per costruire la monarchia costituzionale e aprire alla Spagna le porte di una piena e libera democrazia liberale.
Ciò che emerge da questi pochi esempi sommari è interessante: perché una transizione possa avere successo è necessario che ci sia in primo luogo un perno istituzionale su cui far ruotare questa transizione, che questo perno poi sia estraneo alla società chiusa precedente e che goda di una propria autonoma e indipendente fonte di legittimazione, sia in termini di macchina istituzionale, sia in termini di gruppi dirigenti che quella macchina governano.
Diversi invece sono i casi nei quali il partito che fonda la società chiusa riesce a occupare ogni spazio. E diverso ancora è un altro caso, quando cioè un tale sistema implode e non collassa sotto l’urto militare di una potenza straniera che ne occupa i territori e si fa carico della ricostruzione, come nel caso della sconfitta dei paesi dell’Asse nella seconda guerra mondiale.
In quei casi, quando collassa il partito che si è fatto Stato e ha occupato in toto la società civile , allora trascina con sé ogni cosa. Non esistono attori istituzionali esterni a quel sistema totalitario sui cui fare leva, per poter creare le condizioni per la transizione. Non esistono cioè uomini e istituzioni che abbiano avuto il tempo di costruirsi una propria autonoma e indipendente legittimazione. Diventa allora necessario fare ricorso a pezzi dell’antico regime, intorno a cui ricostruire una nuova struttura istituzionale e che siano in grado di fornire una classe dirigente che possa ricostruire lo Stato.
In questo senso, emblematico è il caso russo, dove la fase di grandi turbolenze che ha fatto seguito al collasso dell’Unione Sovietica e del partito che ne reggeva le sorti, termina solo quando una nuova architettura istituzionale viene ricostruita intorno alle strutture e agli uomini dei vecchi servizi segreti sovietici.
Vale la pena chiedersi: che cosa accadrebbe in Cina se il Partito comunista dovesse collassare? In Cina nel 1949, come in Russia nel 1917, è il partito che fonda lo Stato e negli anni nessun tentativo di staccare il partito dallo Stato ha prodotto risultati. Anzi, con la presidenza di Xi Jinping la capacità del partito di svolgere un ruolo totalitario, di supremazia cioè sullo Stato e sulla società civile, si è accresciuta considerevolmente. C’è di più, negli anni della sua amministrazione, sotto lo slogan della lotta alla corruzione, Xi Jinping ha avviato una campagna di epurazioni di proporzioni colossali che di fatto ha, come al tempo delle grandi purghe, provocato una completa sostituzione di gruppi dirigenti nelle forze armate, nelle aziende di Stato e nelle strutture preposte alla sicurezza interna, che godevano di una propria legittimazione e di una loro autonomia rispetto al leader incontrastato.
Per dirla diversamente, le grandi purghe di Xi Jinping sono servite a eliminare una classe dirigente che era stata promossa nei ruoli chiave dalle precedenti amministrazioni e a sostituirla con uomini in tutto dipendenti da Xi e dai suoi seguaci più fedeli.
Se così stanno le cose, diventa allora evidente che in caso di collasso, non solo sarebbe molto difficile poter individuare una istituzione esterna al regime in grado di fare da perno intorno a cui far ruotare la transizione, ma sarebbe anche molto difficile individuare un pezzo di istituzione, sebbene compromessa con l’antico regime, che possa svolgere questo ruolo e iniziare a costruire un nuovo ordine istituzionale.
Se dunque è vero che non esistono strutture istituzionali in grado di regolare la transizione e se è vero che in politica il vuoto non può esistere, chi potrebbe governare il paese nel caso di un collasso dell’attuale sistema istituzionale? La risposta in questo caso è abbastanza semplice. Quando l’attuale leadership collasserà o per l’urto interno di altre fazioni o per non aver lasciato eredi, allora la lotta politica non potrà che diventare lotta militare e la forza diventerà l’unico strumento per poter decidere chi dovrà costruire la nuova Cina.
L’ordine sinocentrico e il Far West globale
C’è un ultimo aspetto che va preso in considerazione nel prospettare l’impatto che la minaccia cinese può avere: riguarda le ambizioni di Pechino a livello internazionale e come queste ambizioni possono generare attriti con l’ordine esistente, vale a dire quello a liberal-democratico a matrice americana, costruito insieme ai paesi alleati, dopo la Seconda guerra mondiale. Si tratta cioè di ragionare intorno a quella teoria che ha avuto così successo da trasformarsi quasi in un luogo comune, e cioè la “Trappola di Tucidide”. Vale allora la pena provare a chiedersi se Pechino rappresenta una minaccia per l’ordine internazionale perché ambisce a sostituire gli Stati Uniti al vertice politico globale e diventare la potenza cardine del sistema internazionale.
A parere di chi scrive le cose non stanno affatto così e i fiumi di inchiostro che sono stati versati intorno al concetto di “Trappola di Tucidide”, difficilmente sono in grado di cogliere la realtà. Conviene però, prima di procedere, ricordare che cosa si intende per Trappola di Tucidide. È l’idea, per dirla in maniera veloce, che in un sistema internazionale non vi sia spazio per due potenze che ambiscono all’egemonia di quel sistema. Così, quando la potenza emergente cresce troppo, la potenza egemone tende a usare la forza per bloccarne le ambizioni politiche. Come è accaduto nel caso di Sparta e Atene; almeno così argomentano i sostenitori di una tale ipotesi.
Ora, si potrebbe discutere a lungo sulle cause della guerra del Peloponneso e si scoprirebbe che le cose sono abbastanza più complesse di come le si vuole rappresentare. Ma il punto, ai fini del discorso che qui si sta facendo, non è la storia greca. Il punto è che l’idea della Trappola di Tucidide non regge nel caso delle relazioni tra Stati Uniti e Cina per il semplice motivo che Pechino non ha ambizioni globali e la sua logica imperiale, che ne condiziona i comportamenti, le impedisce di essere il cuore di un sistema mutualmente vantaggioso per tutti gli stati che ne fanno parte. Per dirla diversamente, la logica imperiale cinese ambisce alla costruzione di un ordine sinocentrico nel quale agli altri paesi spetta solo il ruolo di stati vassalli.
Come si diceva in precedenza, ragionando sulla mentalità collettiva della leadership cinese e sui principi sui quali si fonda la legittimazione del partito, la Cina corre in avanti per tornare indietro. In altre parole, l’obiettivo principale della leadership cinese, cosa che si è accentuata con Xi Jinping, è quello di acquisire dal sistema internazionale liberale e dalla globalizzazione risorse economiche e finanziarie tali da poter ricreare quell’ordine sinocentrico, distrutto dalle potenze coloniali a partire dalla prima guerra dell’Oppio, che vedeva la Cina al centro del sistema con intorno una serie di stati vassalli e tributari.
Quanto debba essere grande questo ordine sinocentrico, o meglio fin dove arrivano le ambizioni cinesi, è difficile dirlo. Tuttavia, se si prende come metro la Belt and Road Initiative, il mega progetto di infrastrutturazione che deve connettere la Cina con l’Europa, allora si può dire che queste ambizioni sono molto ampie, (anche se, a parere di chi scrive, quel progetto egemonico è già morto)
Ora, il punto è che per quanto possano essere ampie queste ambizioni, si tratta comunque di un ordine regionale e Pechino non ambisce a creare un sistema internazionale di cui essere il centro. Per chiarire questo aspetto, vale forse la pena specificare in cosa consiste il lavoro di una potenza cardine di un sistema internazionale.
Qui non si tratta di ricevere tributi, come faceva il vecchio imperatore Qianlong alla fine del ‘700, o concedere agli stati vassalli il privilegio di utilizzare il calendario cinese e lasciarsi irradiare dalla complessità della tradizione sinica. Il compito di uno Stato cardine di un sistema internazionale è quello di produrre dei beni di pubblica utilità internazionale che producono effetti benefici per tutti.
Andando all’osso questi beni di pubblica utilità internazionale sono essenzialmente tre: la sicurezza (in particolare delle rotte marittime), una moneta globale e un insieme di istituzioni che elaborino delle norme di condotta valide erga omnes. Era quello che faceva Roma con la Pax Romana. Era quello che faceva l’Inghilterra con la Pax Britannica; ed è quello che fanno gli Stati Uniti con la Pax Americana, fornendo la moneta internazionale (il dollaro), una forza in grado di garantire la sicurezza internazionale e delle rotte marittime (la flotta americana), un insieme di istituzioni in grado di produrre un ordine basato sulle norme e sul consenso (le grandi organizzazioni internazionali).
La Cina, a quanto è dato vedere oggi, non ambisce a produrre beni di pubblica utilità internazionale. La flotta cinese, nonostante i passi in avanti fatti con la costruzione di una terza portaerei, resta fedele al principio del sea denial, vale a dire impedire che la flotta americana intervenga troppo velocemente in caso di conflitto su Taiwan. E l’idea che quella flotta possa essere in grado di controllare quanto meno le principali rotte che interessano Pechino, vale a dire quelle che le legano al Golfo Persico e all’Europa, appare ancora lontana dal potersi realizzare.
Stessa cosa vale per l’internazionalizzazione dello yuan, su cui Pechino sta spingendo moltissimo, ma il cui obiettivo non è quello di sostituirsi al dollaro, ma quello di sottrarsi al ricatto del dollaro, creando un’area regionale in cui lo yuan possa essere la moneta franca dei commerci regionali. Per dirla diversamente, Pechino sta cercando di fare dello yuan non la moneta di conto globale (o misura dei valori), non la moneta delle riserve internazionali (o riserva di valori), ma solo un mezzo di pagamento valido in un ambito regionale ben definito. Il che significa che delle tre caratteristiche che una moneta deve avere per poter svolgere un ruolo globale, Pechino ambisce ad averne una sola.
Infine, stesso discorso può farsi per il terzo punto, vale a dire la creazione di istituzioni in grado di elaborare principi e condotte condivise che strutturino un sistema internazionale basato sulle norme. In questo senso, si può dire che l’impegno che Pechino mette nel costruire un ordine regionale intorno a delle istituzioni che non siano quelle cinesi, dominate dal Partito comunista e dal suo leader, è scarso ed è naturale che sia così. Un potere politico che ambisce all’assolutismo non può pensare di limitare la propria capacità di azione, condividendolo con altre decisioni e aree di intervento. Non a caso i vari forum di cooperazione messi in piedi da Pechino (si pensi alla Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) sono quasi tutti falliti man mano che la Cina acquisiva forza. Stesso discorso può farsi per l’Asian International Investment Bank, che avrebbe dovuto sfidare la Banca mondiale e che oggi sembra un progetto che si sta incagliano rapidamente.
Se, dunque, la Cina non ha ambizioni globali e non intende sostituirsi agli Stati Uniti, ma ambisce solo alla creazione di un ordine regionale dove conta solo la parola di Pechino e non vi è spazio per altri, nemmeno per il diritto internazionale e per la tutela dei diritti umani, allora in cosa consiste la minaccia che la Cina rappresenta per l’ordine internazionale?
Consiste proprio nella creazione di un ordine regionale, dove a livello macro, si applica il vecchio principio dell’ordine westfaliano del cuis regio eius religio, vale a dire il volere arbitrario della potenza egemone. Il che rappresenterebbe un ritorno al passato con la creazione di quei blocchi regionali, nati come aree monetarie, divenuti poi blocchi economici e trasformatisi poi in corazzate militari e politiche, dal cui attrito si sono poi generate le due guerre mondiali del secolo scorso.
Il progetto di un ordine sinocentrico, dunque, è pericoloso perché rompe l’idea di un ordine internazionale basato su norme condivise e apre la strada a un ordine in cui ciascun egemone ha mano libera all’interno della propria area ed è libero di decidere come sia meglio agire per garantirsi sicurezza e prosperità. È facile immaginare come un tale sistema potrebbe riportare in vita nel giro di pochissimo tempo i vecchi spettri del protezionismo economico, del nazionalismo politico e della guerra come strumento ordinario per la risoluzione delle controversie internazionali.
Per dirla diversamente, se un ordine basato su norme condivise, così come accade per il diritto che regola la vita dei cittadini all’interno di uno stato libero, serve a impedire che cives ad arma veniant, un ordine basato sul volere arbitrario delle potenze egemoni significherebbe creare le condizioni per l’anarchia globale. Una situazione che in questo caso non corrisponderebbe alla libera cooperazione tra le nazioni su un piano di parità, ma al Far West dove sopravvive solo il più forte o il più veloce a sparare.