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Come concepire i futuri rapporti con la Russia, che ha già perso la sua guerra

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 Mentre la guerra in corso sul suolo ucraino provoca danni enormi al Paese, alla sua popolazione civile e alle forze armate dei due contendenti, Vladimir Putin ha già perso la “sua” guerra. L’ha persa in almeno tre dimensioni.

Un momento della visita dei tre leader europei Draghi, Macron e Scholz in Ucraina – nella foto, il Presidente del Consiglio italiano e il Presidente della Repubblica francese a Irpin

 

La prima dimensione è quella del controllo su Kiev: nel tentativo di acquisire il controllo completo dell’Ucraina (cioè sostituire il Presidente Zelenksy e sopprimere l’attuale sistema politico), Mosca ha perso l’influenza parziale e indiretta che aveva sul Paese. E’ ora inevitabile che solo una forza militare preponderante potrà costringere gli ucraini a sottomettersi al volere russo; in sostanza, i costi di una linea imperiale nei confronti del vicino meridionale sono enormemente cresciuti per la Russia rispetto al 2014, quando ci fu il primo intervento militare.

La seconda dimensione della sconfitta politica di Putin riguarda il rapporto con l’Occidente. L’invasione ha spinto la NATO a creare un cordone difensivo ai confini russi che prima non esisteva (in Scandinavia ma anche nel Mar Nero, come si vedrà col tempo dalla presenza navale occidentale), e ha confermato i peggiori timori dei membri più antirussi dell’Alleanza che ora sono ben più ascoltati di prima. Parallelamente, Mosca ha accelerato la scelta della UE di dar vita a un percorso speciale di partnership e perfino di membership per Kiev: resta da vedere come il rapporto si configurerà esattamente, ma uno stretto aggancio a Bruxelles è altamente probabile, prima in chiave di ricostruzione e poi in chiave di parziale integrazione.

 

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Infine, Putin ha rinunciato alla Russia degli anni Duemila, agganciata al sistema globale seppur sostanzialmente bloccata (per sua scelta) in un modello economico da “rentier state”. Avendo ben compreso che è giunta la fine di un’era, i milionari fuggono ora dal Paese e continueranno a farlo, e intanto l’economia russa si avvita non soltanto in una recessione, ma anche in una vera dinamica di regressione e sottosviluppo – nella quale la dipendenza crescente dalla Cina sarà inevitabile ma non sufficiente a risollevare i tassi di crescita. Va notato che ciò ha implicazioni politiche, poiché il “patto di potere” su cui si fonda il regime putiniano dell’ultimo ventennio dipende dall’accesso alle opportunità offerte da un sistema globale aperto. In altre parole, non solo gli oligarchi ma anche le più numerose fasce di reddito medio-alto hanno finora beneficiato di condizioni internazionali complessivamente benigne per la Russia. Per una specie di ironia della sorte, Putin potrebbe ottenere realmente ciò che a tratti è sembrato desiderare, cioè il ritorno a una versione rimpicciolita dell’Unione Sovietica; ma nei fatti l’obiettivo non sarà raggiunto in termini di ampliamento territoriale, bensì di sistema economico chiuso, largamente isolato e impoverito.

La sensazione è che la Russia abbia fatto un salto nel vuoto senza capire davvero dove sarebbe atterrata. La sua leadership sembra aver finito per credere alla propria stessa propaganda, che agli occidentali (e agli ucraini) risulta non solo inaccettabile ma anche logicamente insensata. Si prendano le giustificazioni della “operazione speciale” addotte più spesso da Vladimir Putin e Sergey Lavrov – lasciando da parte la surreale confessione dell’ex-Presidente “a rotazione” Dmitri Medvedev che ci ha spiegato di odiare l’Occidente tutto.

Ci è stato detto ufficialmente che l’offensiva militare ha in realtà un obiettivo difensivo, cioè la difesa dei cittadini russofoni del Donbass (nella sua accezione geografica allargata); ma l’OSCE ha chiaramente certificato dal 2014 che non esisteva un rischio di sicurezza per quelle popolazioni, mentre l’accesso internazionale alla parte orientale del Donbass è stato di fatto interdetto per anni da Mosca, e ora l’attacco russo sta letteralmente distruggendo la regione che dovrebbe “salvare”, compresa tutta la sua popolazione.

Ci è stato poi detto che l’operazione militare mira a prevenire l’ingresso dell’Ucraina nella NATO; ma prima del 24 febbraio non era in corso alcun processo di adesione di Kiev all’Alleanza, e va sempre ricordato che il primo attacco nel 2014 avvenne a seguito dell’accordo di Associazione con la UE (da cui il forte sospetto che la minaccia esistenziale per Mosca non sia affatto di tipo militare ma economico e culturale).

Infine, abbiamo spesso ascoltato dalla leadership russa strani riferimenti al “nazismo” in Ucraina, che nelle intenzioni di Mosca sarebbe stato sradicato grazie alla rimozione di Volodymir Zelensky; a fronte di questa rivendicazione, qualsiasi osservatore esterno resta semplicemente perplesso e ogni dialogo tende a interrompersi.

In sostanza, sia dai comportamenti sul campo sia dalle dichiarazioni ufficiali si evince che la Russia di Putin si è cacciata in un angolo dal quale non sa come uscire.

Se questi sono i contorni di una grande sconfitta politica e strategica, resta da valutare come i possibili “vincitori” trarranno qualche beneficio dalla situazione, cosa da non dare affatto per scontata. Al di là della più che legittima volontà ucraina di difendere con le armi il proprio diritto a esistere come Stato indipendente, gli obiettivi della vasta coalizione che si è formata (o consolidata) per reagire all’attacco russo sono ovviamente più articolati, e non perfettamente coincidenti con quelli di Kiev. Il problema è che un conflitto bellico può risultare in una perdita secca per tutte le parti coinvolte, non soltanto a causa delle vittime e della distruzione fisica ma anche per le conseguenze indirette sulla sicurezza e sulle prospettive economiche.

L’economia globale sta già pagando un prezzo altissimo, tra crisi alimentare (soprattutto per alcuni Paesi africani), volatilità finanziaria e prezzi energetici (che a onor del vero stavano già salendo prima del 24 febbraio). E ci saranno scelte difficili da compiere nel prossimo futuro rispetto alla durata delle sanzioni contro la Russia, in particolare sull’export energetico: non ci si può nascondere, dalla prospettiva europea, che una transizione ordinata verso un modello produttivo più ecologicamente sostenibile beneficerebbe molto delle forniture russe di gas (considerazione meno valida per il petrolio).

Per certi versi, il delicato tentativo diplomatico in corso – più o meno sottotraccia – da parte di Germania, Francia e Italia da molte settimane sembra essere finalizzato a salvare il rapporto con Mosca dal terribile errore strategico commesso da Putin: una missione quasi impossibile, ma che ha senso anche in vista di un sistema di sicurezza pan-europea che non sia basato sull’isolamento permanente della Russia. E’ chiaro che quasi tutti gli europei preferiscono evitare un esito così simile alla guerra fredda, ma è altrettanto vero che Berlino, Parigi e Roma non accetteranno un compromesso incondizionato, proprio perché la sconfitta russa è un dato acquisito. Putin non può certo aspettarsi di negoziare un cessate il fuoco in Ucraina e tantomeno un futuro ordine di sicurezza europea da una posizione di vantaggio; al contrario, se sarà invitato al tavolo negoziale sarà alle nostre condizioni.

 

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A queste considerazioni si aggiunge una questione ancora più ampia, che riguarda gli assetti globali e il rapporto transatlantico. Gli Stati Uniti di Joe Biden riconoscono che il problema russo-ucraino è anzitutto un dilemma europeo, e anzi ritengono che la Russia sia in effetti una potenza regionale, non di più (come, correttamente, pensava già Barack Obama prima della erratica presidenza Trump).

Tuttavia, l’invasione dell’Ucraina ha prodotto ormai effetti anche globali, e dunque il futuro della Federazione Russa si lega, più di prima, al vero fattore “sistemico” su cui Washington si concentra da oltre un decennio: la Cina. Da questo punto di vista, gli europei devono decidere finalmente quale sarà il loro contributo alla sicurezza e alla difesa del loro continente, che è ineluttabilmente parte dell’Eurasia e che dunque non può certo ignorare il problema russo ma neppure gestirlo come è stato fatto fino al 24 febbraio 2022. Può darsi che sia giusto non cercare ad ogni costo una “vittoria” – e soprattutto una vittoria punitiva – nei confronti di Putin, ma certo la UE (non solo la NATO) ha d’ora in avanti una responsabilità nei confronti dell’Ucraina. E quel Paese andrà difeso, sostenuto, aiutato.

Lo hanno perfettamente capito i Capi di governo che hanno compiuto una visita altamente simbolica a Kiev il 16 giugno: i tre maggiori Paesi europei, assieme ai loro partner e agli organi comuni di Bruxelles, hanno segnalato senza mezzi termini che non imporranno la propria volontà a Zelensky su come e quando intavolare finalmente un qualche negoziato con Mosca: prima di tutto viene il sostegno all’Ucraina e alla sua libertà di scelta, per ragioni al contempo pragmatiche e ideali.

Si potranno dunque graduare le mosse contro la Russia, e verrà per Kiev il momento di accettare dolorosi compromessi, ma tutti riconoscono che non siamo noi a dover fare concessioni, perfino a fronte del ricatto energetico e alimentare. Si negozierà certamente, ma da posizioni di forza rispetto alla Russia che ha già perso la sua guerra.