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Cina e USA: prova di forza su Taiwan

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 La risposta della Cina alla visita di Nancy Pelosi a Taipei è quella che ci si aspettava, forse con un grado di violenza in più: una pesante esibizione di forza militare, la più pesante di sempre (lanci di missili balistici, un semi-blocco delle acque territoriali fino a domenica prossima) e insieme sanzioni economiche che colpiscono l’export di Taiwan e la produzione strategica dei semi-conduttori. Il costo di una visita che parecchi degli alleati asiatici degli Stati Uniti hanno giudicato inutilmente rischiosa cade anzitutto su Taipei e ha un impatto su snodi cruciali per il commercio globale.

Nancy Pelosi, ‘speaker’ della Camera degli Stati Uniti

 

Ma anche Pechino ne esce malconcia: la Cina non è riuscita a evitare l’abbraccio di Pelosi alla democrazia taiwanese e reagisce con strumenti che rafforzano le percezioni negative ormai prevalenti nei suoi confronti, in Asia e in Occidente: lo testimonia il comunicato del G7 contro l’escalation militare cinese. L’ America, da parte sua, è sembrata oscillare fra le cautele del potere esecutivo e gli slanci di quello legislativo. Resta che gli scenari di un conflitto imminente sono poco credibili, Pechino non è ancora nelle condizioni di combatterlo e tanto meno di vincerlo. E resta che la visita della speaker della Camera dei Rappresentanti non ha creato il problema. Piuttosto, ha messo a nudo il problema sottostante: il futuro di Taiwan, con il suo peso decisivo nei rapporti fra le due superpotenze di oggi, è sempre più difficile da gestire.

 

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La Cina è avviata su una traiettoria di nazionalismo assertivo, che oggi è utilizzato da Xi Jinping per compensare le difficoltà economiche e i fallimenti nella gestione del Covid. Mancano pochi mesi a un Congresso decisivo del Partito Comunista, che dovrà sancire il terzo mandato al potere di Xi. Il presidente cinese vuole la riunificazione in tempi non biblici, quale componente essenziale dell’annunciato “rilancio” della nazione cinese. Che ciò possa avvenire in modo pacifico è ormai dubbio: tanto più dopo il giro di vite su Hong Kong, che ha rafforzato le posizioni indipendentiste a Taiwan, paese democratico con 23 milioni di abitanti.

L’America, dai tempi di Nixon e Kissinger, riconosce l’esistenza di una “sola Cina”: la “one China policy”, applicata dalla stragrande maggioranza dei Paesi che siedono all’ONU insieme a Pechino, ha permesso a Washington la storica apertura dei primi anni ’70 alla Cina di Mao. Dal 1979 in poi, con il Taiwan Relations Act, Washington si è parallelamente impegnata a fornire a Taiwan capacità difensive, che sono aumentate nel tempo. E l’America ha seguito da allora una impostazione fondata sulla cosiddetta “ambiguità strategica”: una posizione ambigua abbastanza da lasciare incerta Pechino sulla risposta eventuale degli Stati Uniti all’uso della forza nello stretto di Taiwan – e l’incertezza, come noto, è un ingrediente essenziale della dissuasione militare. Ma al tempo stesso ambigua abbastanza da scoraggiare Taipei a coltivare l’illusione di una piena e riconosciuta indipendenza.

Questo tipo di status quo, che ha resistito alle prove di più di quattro decenni, appare oggi fortemente indebolito per varie ragioni. Primo, come già si diceva, la stretta cinese su Hong Kong, ossia sul modello possibile di una riunificazione pacifica fondata su “due sistemi” in un solo paese. Secondo, un equilibrio di potenza profondamente diverso da quello che esisteva anni fa, visto il rafforzamento militare di Pechino e l’ascesa economica di entrambe, la madrepatria e quella che la Cina continua a considerare una “provincia ribelle”. Va aggiunto, come terzo fattore, che le garanzie militari americane a Taiwan diventano molto più rilevanti, per essere credibili a fini dissuasivi, di quanto non fossero nel 1979. Secondo parte degli analisti di Washington, l’ambiguità sulla risposta americana non è più in grado di esercitare una dissuasione efficace; è ormai necessario un deciso ed esplicito rafforzamento delle difese dell’isola.

Quando Joe Biden, qualche tempo fa, ha dichiarato che gli Stati Uniti interverrebbero militarmente in caso di attacco cinese a Taiwan, il Dipartimento di Stato si è affrettato a ribadire la continuità della politica americana. Ma la verità è che Washington è oggi più esposta sul piano militare e meno ambigua su quello strategico. Da questo punto di vista, la visita di Nancy Pelosi è apparsa, a gran parte dei due schieramenti del Congresso americano, come una scelta rischiosa ma conseguente agli sviluppi che abbiamo descritto. E chiarificatrice. Gioca infine un suo peso la guerra in Ucraina: l’esito del confronto scatenato dalla Russia potrà condizionare anche i calcoli futuri della Cina rispetto a Taiwan. E sarà quello, nelle percezioni di Washington e Pechino, l’epicentro della vera sfida del secolo.

 

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Per ora, esistono canali di comunicazione fra Cina e Stati Uniti tesi a evitare incidenti diretti. La novità, tuttavia, è il grado di diffidenza reciproca: la parte cinese sospetta che la “one China policy” di Washington non sia più granitica; la parte americana teme che la riunificazione pacifica non sia più nelle carte. Per questo un conflitto su Taiwan, nei prossimi anni, è possibile. E a quel punto, con l’America che si concentrerà nel Pacifico, l’Europa dovrà già essere in grado di sostenere gran parte dell’onere della propria difesa.

 

 


*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 5 agosto 2022.