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Capire la Germania: scelte politiche, prima che ideali di solidarietà

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Solidarietà, solidarietà. Germania, Germania. Sono questi i pilastri attorno ai quali si è sviluppato il dibattito, in Italia e non solo, di fronte ai negoziati europei per dare una risposta comune alla crisi del virus. Quanto è solidale l’Olanda – ci si chiede – in realtà per domandarsi quanto è generoso il governo di Berlino.

E’ un’impostazione che, mentre si va ad affrontare una trattativa importante, in questi termini rischia di finire nella sabbia, arenata. Ci sono infatti un paio di errori che non è una buona idea commettere quando ci si appresta a negoziare: la genericità e l’incomprensione dei motivi che muovono la controparte. Nel caso in questione, l’elemento generico è appunto la solidarietà, la non comprensione riguarda la Germania. Che poi le due sono legate.

Giuseppe Conte e Angela Merkel

 

Certo, il Trattato di Lisbona ha una “clausola di solidarietà” all’articolo 222: “L’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo”. Il fatto, però, è che nessuno dei 27 governi della UE, e quindi nemmeno dei 19 dell’Eurozona, ha messo in discussione l’articolo 222 e le conseguenze che comporta.

Da un lato, quello in cui stanno Giuseppe Conte e Roma, si è tradotta la solidarietà nella proposta di emettere eurobond o coronabond, comunque strumenti di debito comune per affrontare la crisi sanitaria e le sue conseguenze economiche. Dall’altro lato, dove stanno Berlino e Angela Merkel, la si è tradotta nel ricorso al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) a condizioni leggere, o senza stigma come si è detto, sostanzialmente con lo stesso scopo. Sempre di solidarietà europea si tratta. La differenza non sta nel buon cuore degli uni e degli altri – criterio sul quale non si potrà mai arrivare a un accordo morale – ma nelle scelte di politica che stanno dietro ai due diversi strumenti.

Ci si può schierare con l’uno o con l’altro, naturalmente. Si può preferire l’emissione di bond comuni all’area euro sapendo che ciò la metterebbe sulla strada di una maggiore integrazione e di un futuro bilancio dell’eurozona. Non una prospettiva immediata ma uno dei famosi passi verso “più unione” che la UE ha spesso mosso nei momenti di difficoltà. Ma si può anche preferire passare per vie già esistenti, come il MES o come – queste sono le proposte più recenti – il bilancio europeo sostenuto da emissione di titoli e la Banca europea per gli investimenti, anch’essa in grado di emettere titoli del debito in grande quantità. E quindi non volere muoversi verso una maggiore integrazione perché si ritiene che non sia il momento, perché si pensa che alcuni elettorati non la sosterrebbero in quanto la sfiducia tra i Paesi europei non è certo ai livelli minimi (gli acidi scontri dei giorni scorsi l’hanno decisamente aumentata).

La conversazione, quindi, non è sulla solidarietà: è sulle scelte politiche. E qui arriva la questione tedesca. L’irritazione di Merkel con Conte è in parte dovuta alla minaccia del Presidente del Consiglio italiano di abbandonare la video-riunione dei leader europei del 26 marzo, quella poi finita in un rinvio. Ma in misura significativa anche all’accusa indirizzata ai tedeschi di non essere solidali. Ma con quale situazione e con quale posizione si siede alla trattativa il governo tedesco (che è poi il più importante tra quelli contrari agli eurobond)?

Dal 2015, con la politica dello Schwarze Null, cioè del divieto di deficit in tempi normali, Berlino ha realizzato una serie di surplus di bilancio. E’ stata molto criticata, per questa “austerità”, la Cancelliera, con i suoi ministri. Sulla base dell’esperienza della crisi finanziaria del 2008, di quella del debito europeo del 2011-2012 e della crisi dei migranti del 2015, il governo tedesco ha voluto accumulare risorse nei tempi buoni per essere pronto ad affrontare i tempi difficili. Il famoso mettere fieno in cascina per quando ce ne sarà bisogno; cioè adesso.

Ora, dopo anni di risparmi, può Merkel dire a chi l’ha eletta che per affrontare la crisi si devono mettere in comune i debiti europei, anche quelli che faranno Paesi che gran parte dei tedeschi ritengono poco responsabili, che si sono ridotti ad avere scarsi spazi fiscali e, tra l’altro, poco solidali nel mantenere la solidità dell’euro? E che ci si sta probabilmente avviando sulla strada di un bilancio comune dell’eurozona? Possono non piacere queste domande, ma sono quelle che bisogna avere presenti quando si va a una trattativa, e si deve sapere fino a dove la controparte è in grado di arrivare nel fare concessioni.

Le ragioni della contrarietà tedesca agli eurobond perfino di fronte a una crisi della portata di quella provocata dalla pandemia sono anche altre. C’è il vecchio e sempre citato timore del debito, da molti in Germania vissuto come un peccato e soprattutto ripudiato dalle teorie ordoliberali come strumento di politica economica. C’è poi la ritrosia di una parte consistente dell’establishment tedesco a fare entrare una maggiore integrazione dalla finestra aperta da uno stato di emergenza come quello creato da questa crisi. Ritrosia che potrebbe trovare ascolto fatale nella Corte Costituzionale.

Infine c’è un vincolo geopolitico del quale si parla pochissimo ma che a Berlino è molto rilevante. Italia, Spagna, Francia, Grecia, Portogallo vedono nell’area euro, quella a maggiore velocità d’integrazione, il loro destino. Per la Germania, invece, ha anche una rilevanza straordinaria l’Est dell’Europa: la Polonia, la Repubblica Ceca, la stessa Ungheria (che non sono parte dell’eurozona), e i Paesi baltici: tutti Paesi che sono spesso restii a maggiori forme d’integrazione e nei confronti dei quali Berlino svolge un ruolo di cerniera per tenerli realmente uniti alla UE.

Naturalmente, in una trattativa pesano anche, forse soprattutto, i rapporti di forza. E anche questi vanno presi in considerazione: la Germania che ha risparmiato ieri ha ora spazio di bilancio per mobilitare in proprio, nella crisi, centinaia di miliardi; ha una struttura industriale che licenzierà meno di altre grazie al contributo di Stato per la riduzione dell’orario di lavoro; ha una cancelliera che dà il meglio di sé nelle crisi e che anche questa volta ha ripreso saldamente la sella dopo mesi di incertezze. Un motivo in più, se serve, per capire come ragiona il Paese – la controparte, se vogliamo – più rilevante d’Europa.