international analysis and commentary

Cambiamenti climatici e politica: una prospettiva storica

1,351

Nel 1989 la sociologa statunitense Janet Abu-Lughod predisse che l’epoca dell’egemonia occidentale sarebbe stata sostituita dal ritorno a un “relativo equilibrio tra molteplici centri di potere, come accaduto nel sistema mondiale del XIII secolo”. È ancora presto per tracciare un bilancio definitivo riguardo le sue parole. Appare tuttavia probabile che le future generazioni indicheranno l’attuale guerra russo-ucraina come un momento significativo nel processo storico che da tempo vede un progressivo slittamento degli equilibri di potere da Occidente verso Oriente.

I processi di riequilibrio nei rapporti di forza globali sono da sempre accompagnati da annose violenze: il tragico presente che coinvolge milioni di esseri umani è in questo senso destinato a protrarsi nel tempo. Esistono tuttavia alcune evidenti differenze rispetto alle epoche passate. A cominciare dalla crescita esponenziale della popolazione mondiale – raddoppiata tra il 1969 e il 2012 –, passando per i cambiamenti climatici, l’impoverimento della biodiversità e gli stravolgimenti degli habitat naturali. Non si tratta – come nel “cigno nero” di Nassim Nicholas Taleb – di eventi imponderabili o improbabili, bensì di processi già in atto: avranno un ruolo enorme nella ridefinizione degli ordini globali e dei centri di potere che li sottendono, e anche per questo è utile e opportuno comprenderne le radici.

Un pompiere affronta uno degli incendi legati alla siccità in California del 2020

 

Impatto ed effetti

L’epoca geologica che stiamo vivendo è nota a molti come Antropocene, dal greco anthropos, uomo. Il termine, che richiama alla mente l’era antropozoica individuata da Antonio Stoppani nel 1873, mira a sottolineare il modo in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene plasmato dagli effetti dell’azione umana.

L’impatto degli esseri umani in relazione all’aumento della concentrazione di CO2 (e CH4, cioè metano) nell’atmosfera – e le sue ricadute sul clima, la salute e l’ecologia – è ormai evidente, non fosse altro per il fatto che, per citare un recente studio di Jürgen Renn, la concentrazione di diossido di carbonio (CO2) nell’atmosfera ha conosciuto in anni recenti un’accelerazione “forse cento volte superiore a quanto riscontrabile in qualsiasi altro momento della storia dei precedenti 420,000 anni”.

Il concetto di Antropocene, tuttavia, è approssimativo e in larga parte fuorviante. Esiste infatti un problema legato ad alcune società e talune economie (dislocate in particolare nell’Europa del nord, sulla costa atlantica degli Stati Uniti e nella Cina orientale): la stragrande maggioranza del resto del mondo e degli abitanti che lo popolano hanno poco a che spartire con le cause e le dinamiche legate all’Antropocene, se non il fatto di subirne i nefasti effetti.

Si prenda il caso specifico degli Stati Uniti, – dove risiede circa il 5% della popolazione mondiale – un Paese che ha prodotto, nel corso del Novecento, circa il 30% dell’intero ammontare delle emissioni di diossido di carbonio. Tali numeri appaiono ancora più significativi qualora si decida di includere nell’analisi la Cina (7% del totale delle emissioni di diossido di carbonio), l’India (2%) e l’Europa (22%). Le emissioni pro capite registrabili in India e Cina sono ancora oggi “del 50-80% inferiori alla media mondiale”. Senza contare che un Paese come lo Sri Lanka, la cui aspettativa di vita è simile a quella degli Stati Uniti (un anno e mezzo di differenza tra i due paesi), utilizza circa l’88% in meno di risorse rispetto al Paese nordamericano e, su base pro capite, circa il 94% in meno di emissioni.

 

Il paradigma malese

Al di là dei limiti legati al concetto stesso dell’Antropocene, esiste un chiaro legame tra quest’ultimo e i processi coloniali. Come notato da Eva Horn e Hannes Bergthaller in un recente studio, nella misura in cui “ha comportato enormi processi di deforestazione, l’introduzione di ‘colture commerciali’, la creazione di piantagioni, nonché sfruttamento economico, il colonialismo può essere indicato come uno dei significativi fattori che hanno portato all’Antropocene”. In altre parole, molti degli aspetti che sottendono l’Antropocene sono riconducibili a un sistema di sfruttamento – umano e legato alle risorse naturali – che emerge dall’eredità dei secoli seguiti alla “scoperta delle Americhe” e, in particolare, alla fase storica in cui si è affermato il colonialismo.

Ciò è particolarmente visibile nell’Oceano Indiano, strategica rotta di transito tra Africa e Asia, dove il colonialismo ha profondamente influenzato i processi produttivi di massa e le relative dinamiche che scandiscono la nostra epoca. Si pensi a questo riguardo alla penisola malese, oggi politicamente divisa tra Birmania, Malesia e Thailandia. Essa venne in larga parte convertita in un’economia delle piantagioni tarata in base alle necessità industriali della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Tali politiche erano riconducibili a motivazioni economiche, finalizzate a venire incontro alle necessità – materie prime e nuovi mercati – create dalla Rivoluzione industriale.

Da una prospettiva intra-regionale, tuttavia, il loro principale risultato è stato quello di spingere milioni di lavoratori malesi, indiani e cinesi a cercare soluzioni economiche e politiche in chiave anti-coloniale, nonché a sfruttare in modo non sostenibile la foresta pluviale – la deforestazione del Borneo ne è una testimonianza significativa – alla ricerca di una qualsiasi forma di sostentamento. È questo uno ‘schema’ che nell’Otto-Novecento ha accomunato, in modi e forme differenti, larga parte degli spazi coloniali e post-coloniali analizzati in questo lavoro: il colonialismo, ha notato al riguardo Carmen G. Gonzalez, “ha universalizzato le idee europee legate al concepimento della natura come merce finalizzata allo sfruttamento umano, creando al contempo un’economia globale che ha posto il Sud Globale in uno stato di sistematica subordinazione”.

 

Dai colonialismi a Space X

Sarebbe tuttavia un errore pensare che le dinamiche appena analizzate siano circoscrivibili solo al nostro pianeta. Il “colonialismo climatico” – nel contesto del quale gli esseri umani si percepiscono come dominatori di un ecosistema, piuttosto che come parte di esso – ha infatti molto a che vedere anche con l’attuale fase d’avvio del turismo spaziale. Il riferimento è alla competizione che da alcuni anni diverse aziende provate – incluse SpaceX di Elon Musk, Blue Origin di Jeff Bezos e Virgin Galactic di Richard Branson – stanno alimentando per rendere possibili i trasporti suborbitali.

L’1% più ricco del pianeta è già oggi responsabile di circa il 50% delle emissioni legate all’aviazione: il turismo orbitale contribuirà ad aggravare ulteriormente questa sperequazione. Invece di trattare Marte e la Luna come siti di conquista e insediamento, è necessario sviluppare una nuova etica dell’esplorazione spaziale. Storicamente, i colonizzatori sono sempre stati motivati ​​dall’impressione che tutto ciò che li circondava fosse pensato a loro uso e consumo: ciò ha molto a che vedere anche con le attuali politiche legate all’esplorazione dello spazio, nonché allo sfruttamento delle risorse naturali sul nostro pianeta.

Vale forse la pena concludere ricordando che la prima documentata guerra della storia umana vede coinvolti, intorno al 2450 a.C., i regni Lagash e Umma nell’antica Mesopotamia (attuale Iraq). Venne innescata da conflittuali rivendicazioni legate all’acqua e al suo approvvigionamento. Ci sono buone ragioni per ritenere che l’ultima guerra sul nostro pianeta comincerà per le stesse ragioni.