international analysis and commentary

Bruxelles: non solo Belgio

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La cosa nuova e tristissima, questa volta, è che ce lo aspettavamo. Sapevamo, dal 13 novembre di Parigi almeno, che Bruxelles era il ventre molle, con quartieri fuori controllo, polizie inefficienti e divise, comunità islamiche pronte a coprire chiunque dei “loro”, perfino Salah Abdeslam. Lo aspettavamo, lo sapevamo; ma non siamo riusciti a evitarlo. Se c’era bisogno di una dimostrazione tangibile della vulnerabilità della capitale dell’Europa, la prova c’è stata. Con il suo tragico prezzo.

Adesso non vanno compiuti altri tre errori, che ne potrebbero derivare.

Il primo è di credere che il Belgio sia un’eccezione. E’ evidente che il Belgio – per le ragioni che ha ricordato per primo Tim Parks su Politico.Ue – può essere definito uno stato fragile all’europea (parlare di “failed State”, onestamente, mi pare un po’ tanto ed è una fase in cui conviene maneggiare con cura le parole). Ne è una prova sufficiente, del resto, il fatto che il paese sia stato privo di un governo nazionale per più di un anno. Il Belgio, insomma, è un caso limite di frantumazione istituzionale: l’inefficienza delle polizie e dell’intelligence ne è una delle conseguenze. Detto questo, tuttavia, gli attentati in Europa sono già avvenuti altrove e potranno avvenire altrove. Di fronte al terrorismo di matrice islamica, le risposte europee saranno comuni o non ci saranno. Per ora non ci sono, nonostante qualche progresso compiuto nella cooperazione fra agenzie di intelligence.

Secondo errore: considerare Bruxelles la capitale dell’Europa solo quando ci troviamo di fronte a tragedie come queste. O Bruxelles è la capitale delle istituzioni europee e della NATO anche in tempi normali; o non lo è mai. E’ infatti quasi impossibile ricostruire di colpo una legittimità che è andata sgretolandosi negli anni. Da questo punto di vista, gli attentati terroristici sono davvero un’ultima chiamata per l’Europa. Le possibilità sono solo due: o decidiamo che gli europei in quanto tali sono alle prese con una guerra, per quanto difficile sia usare un termine come questo, e devono combatterla insieme; o l’Ue e la NATO saranno davvero alla fine. L’Ue può e deve diventare un’Unione per la sicurezza: è la missione di questo secolo. Inutile continuare a raccontarsi che ci serve ancora un’Europa nata dalla fine delle guerre novecentesche; e sviluppatasi poi sull’illusione della grande integrazione dei mercati finanziari. Viviamo una fase diversa, caratterizzata dalla vulnerabilità in tutti i campi; e quindi serve un’Europa diversa, in grado di ridurla.

Terzo errore: ritenere che il terrorismo alla Bruxelles sia interamente domestico. In parte lo è, naturalmente. Ma esiste anche un fronte esterno – quello che si muove dal Siraq alla Libia – che serve a galvanizzare, a motivare, ad addestrare i terroristi nativi. Per ora gli europei hanno affrontato il problema in ordine sparso; e hanno cercato di eluderlo. In realtà, l’esistenza di due fronti ci pone problemi che abbiamo il dovere di discutere con coraggio. E’ vero che la perdita di territori nel Siraq spinge le fazioni dell’Isis a moltiplicare gli attacchi in Europa? O è vero il contrario? Ossia, che solo combattendo radicalmente ISIS, cosa che per ora non è stata fatta, indeboliremo anche il terrorismo europeo.

La gestione del fronte domestico richiede anche – lo sappiamo – risposte politiche vere, strutturali e a lungo termine, sulla grande questione di come integrare le minoranze islamiche nelle nostre società. E’ una questione di fondo, da cui tuttavia non possiamo lasciarci paralizzare. Se è in atto una guerra contro i cittadini europei, in qualunque modo vogliamo chiamarla, dobbiamo essere pronti a combatterla su entrambi i fronti.