Il divorzio inglese dall’Ue senza uno straccio di accordo commerciale comincia ad apparire possibile. Si vedrà meglio al termine del round negoziale di questa settimana a Bruxelles. Ma va intanto capita la premessa: il “no deal”, la mancanza di accordo, è una ipotesi che non dispiace affatto all’ala dura dei Tories, allergica a qualunque tipo di vincolo rispetto all’Europa e convinta che la Gran Bretagna possa e debba ritrovare la sua anima di potenza sovrana e globale.
Boris Johnson conferma di volere un accordo con l’Ue; ma sta creando condizioni inaccettabili per gli europei. La legge appena presentata sul mercato interno britannico prevede infatti di potere “disapplicare” in modo unilaterale parti del Protocollo sull’Irlanda del Nord – Protocollo che rientra nel trattato già firmato con l’Ue al momento del ritiro. Il governo inglese alza così la posta del negoziato commerciale e, ledendo accordi internazionali esistenti, erode la fiducia residua fra le parti. Chi potrà fidarsi di Londra, se il premier britannico prevede di potere “disapplicare” un Trattato internazionale?
Insieme al costo politico, il costo economico di un “no deal” sarebbe più alto per il Regno Unito che per gli europei, vista l’importanza del mercato continentale per una economia britannica già devastata dalla pandemia. La scommessa di Johnson, su questo secondo fronte, è che il “prezzo” di Brexit possa essere diluito o nascosto nel caos generale provocato da Covid.
Un accordo commerciale con la Ue, anche se limitato, imporrebbe al sistema economico britannico e alle imprese basate oltre Manica il rispetto di standard concordati: Bruxelles vuole raggiungere un accordo con Londra anche perché teme gli effetti potenziali di dumping da parte di una Gran Bretagna che cercasse di trasformarsi – così recitava uno degli slogan portanti di Brexit – in una “Singapore sul Tamigi”. Il sogno liberista sta sfumando, però, a vantaggio di un disegno largamente fondato sul nazionalismo economico. La tesi di David Cummings, consigliere principe di Johnson, è che la Gran Bretagna debba tenersi le mani libere per aiuti di Stato in grado di sostenere la trasformazione dell’economia britannica, anzitutto nei settori tecnologici. L’impatto Covid ha così spostato l’accento dalla “de-regulation”, anche in campo fiscale, all’interventismo statale. E Johnson stesso sembra ancora oscillare fra queste due aspirazioni, che rendono entrambe difficili, ma per ragioni diverse, un accordo con l’Ue.
Vedremo presto cosa prevarrà, fra una valutazione concreta dei costi connessi alla perdita del mercato europeo e la scommessa politica sui benefici futuri di una linea “Britain-first”. Il punto è che la crisi del 2020 ha già accentuato la distanza fra Vecchio Continente e Regno Unito. Da una parte, Francia e Germania hanno potuto condurre l’Ue su una strada – i primi passi di qualcosa di simile ad una unione fiscale – che per Londra ha sempre costituito un anatema. Con la Gran Bretagna dentro l’Ue, il Recovery Fund non sarebbe stato approvato nella sua forma attuale. Dall’altra, lo stacco psicologico britannico dal vecchio Continente si è definitivamente consumato: Brexit non è più in nessun modo materia di discussione o rimpianto.
Ne deriva un rischio specifico, che potrebbe danneggiare i negoziati finali su un accordo commerciale: il rischio che per entrambe le parti il rapporto con l’altra non sia più giudicato una priorità. L’Unione Europea si è ormai rilassata sul potenziale effetto domino di Brexit (che in realtà non c’è stato); il Regno Unito guarda ad altri partner (è stato intanto raggiunto con il Giappone il primo accordo di libero scambio post Brexit) e guarda in casa, dove aumenta l’ indipendentismo scozzese e si complica la questione irlandese.
Il divario fra Bruxelles e Londra non riflette solo interessi in competizione (su aiuti di Stato e diritti di pesca). Rispecchia anche una concezione divergente della sovranità: per gli europei-continentali, l’Europa è entrata nell’epoca della sovranità condivisa; per i britannici, per gli inglesi anzitutto, la sovranità nazionale resta assoluta. La prospettiva degli europeisti del Vecchio Continente è che gli stati membri possano restare sovrani, nel mondo globale di oggi, solo attraverso l’Ue; per gli anglo-sassoni, al contrario, si tratta di recuperare un pieno controllo nazionale. Fra cui – ha dichiarato David Frost, negoziatore britannico – la libertà “sovrana” di disegnare il proprio destino economico.
Le difficoltà negoziali riflettono infine errori di percezione: la parte britannica ha teso a sopravvalutare il peso contrattuale del proprio Paese e a ritenere che l’Unione Europea non sarebbe rimasta unita nel negoziato, come invece è avvenuto. La parte europea non ha colto fino in fondo le spinte emozionali del dibattito britannico; e oggi sottovaluta le conseguenze geopolitiche di un distacco totale di Londra.
Priva della sponda europea, e messa di fronte alla competizione accesa fra Stati Uniti e Cina, la proiezione britannica verso una “global Britain” rischia di rimanere un sogno nostalgico (come argomento con Edoardo Campanella in un libro appena pubblicato per Egea su l’Età della Nostalgia). Per l’Europa, d’altra parte, la secessione della Gran Bretagna è un notevole danno geopolitico, perché riduce la proiezione atlantica dell’Ue e le capacità collettive nella sicurezza e difesa: salvaguardare un legame è anche per questo essenziale.
E’ chiaro che accordi settoriali sono sempre possibili – anche se va ricordato, guardando all’Italia, che Londra tende più che altro a costruire, in politica estera, un gruppo a 3 con Francia e Germania. Ma è indubbio che l’insuccesso del negoziato commerciale provocherebbe una scia di risentimento nelle relazioni fra Gran Bretagna ed Unione Europea. Il no deal significa una sconfitta per tutti.
Una versione di questo articolo è uscita su La Repubblica del 15/09/2020