international analysis and commentary

Berlino, senza Muro e senza ombre

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I festeggiamenti per la caduta del Muro non hanno fermato una metropoli fedele al proprio motto: “Avanti sempre, indietro mai”. Berlino, dove la riunificazione ha funzionato davvero e il ricordo della città divisa sbiadisce nei quartieri alla moda dell’Est, sembra condannata a un’infinita metamorfosi che la lascia priva di ombre e di memoria. Ed è sempre così intenta a diventare qualcosa da non riuscire mai veramente a pensare cos’è, ora e adesso.

È stata una data speciale, per la capitale tedesca, il 5 febbraio scorso. Allo scoccare della mezzanotte, erano passati esattamente 10.315 giorni da quel 9 novembre 1989, quando una semplice parola, “unverzüglich” (immediatamente), pronunciata da Günther Schabowsky, portavoce del governo della DDR, aprì come una formula magica i varchi del Muro di Berlino, innescandone il crollo. Ma quei 28 anni, 2 mesi e 26 giorni sono lo stesso, identico tempo che la barriera della vergogna era rimasta in piedi. Detto altrimenti, a partire da quel giorno la città che visse due volte ha trascorso più tempo senza Muro che con il Muro.

Celebrato con mostre e rassegne, ricordato dai media con commenti, testimonianze e reportage, lo Zirkeltag è stata l’occasione per riflettere su due passaggi della recente storia tedesca, che in modo opposto hanno avuto come comune riferimento quella divisione artificiale – autentica ferita nel corpo vivo di una città e di un intero paese – che fu simbolo potente del suo tempo: la Guerra fredda e la polarizzazione del mondo dopo la seconda guerra mondiale.

AVANTI SEMPRE, INDIETRO MAI. Com’è cambiata Berlino dalla notte in cui i tedeschi furono il “popolo più felice della Terra” e i fratelli separati varcarono il Check Point Charlie a bordo delle loro Trabant o attraversarono a piedi il passaggio della Bornholmer Strasse, accolti dagli applausi dei berlinesi dell’Ovest? Si è avverata la profezia di Willy Brandt, secondo il quale “ora potrà crescere insieme ciò che si appartiene insieme”?

Sono tornato a lavorare e vivere a Berlino undici anni dopo averla lasciata per altre esperienze professionali. E ci sono pochi dubbi che la città sia ancora cambiata dopo il decennio della ricostruzione intensa seguito alla caduta del Muro, fedele al suo motto “Vorwaerts immer, ruckwaerts nimmer”, avanti sempre, indietro mai. “A Berlino ho visto il futuro. È la città più nuova che abbia mai visitato, al confronto Chicago sembra antica”, scriveva Mark Twain nel 1892 in un diario di viaggio dalla capitale tedesca. Sono passati 26 anni e un secolo, ma l’osservazione del grande scrittore americano rimane più che attuale.

Berlino è una città che non sa guardare indietro. Forse perché il suo passato è così denso, carico allo stesso tempo di gloria e d’infamia, la metropoli sulla Sprea sembra condannata a guardare sempre avanti, in una infinita metamorfosi che la lascia priva di ombre e di memoria. Colpita in pieno da tutte le grandi catastrofi politiche dell’ultimo secolo e mezzo, Berlino si è trovata all’incrocio di quelle che Paul Klee ha dipinto come le harte Wendungen, le svolte brusche del Novecento: la sconfitta del Reich guglielmino nella prima guerra mondiale, la fragile e sfortunata democrazia di Weimar, la tragedia criminale e sanguinosa del nazismo, il dramma della città divisa, prima frontiera della guerra fredda e poi simbolo fisico della sua fine con la caduta del Muro. Da ultimo, metafora della Germania riunificata e di nuovo protagonista in un’Europa che torna a temere l’egemonia tedesca.

La reazione è stata un divenire architettonico camaleontico e visionario, dove nulla è stato lasciato com’era, fatto di oltre 5 mila progetti, che ha messo al lavoro centinaia di architetti da tutto il mondo. A cominciare da Potsdamer Platz, la ex terra di nessuno dove per cinquant’anni si diedero appuntamento tutti i fantasmi del “secolo breve”. Qui, dove venivano falciati gli illusi della DDR che tentavano la fuga a Occidente, è tornato a pulsare il cuore della città. Renzo Piano ha ricostruito un tessuto urbano fatto di piazze e strade, teatri e grattacieli in stile Metropolis, edifici antichi restaurati. Le più celebri archistar si sono misurate sulla Sprea, sia pure all’interno di un ferreo corsetto di regole urbanistiche dettate dal vero dominus della ricostruzione, il Baudirektor Hans Stimman: da Frank Gehry a Daniel Liebeskind, da Arata Isozaki a Norman Foster, autore quest’ultimo della cupola di vetro del nuovo Reichstag, simbolo della Berliner Republik.

E non è ancora finita: si continua a costruire nel quartiere del governo, nelle aree ancora vuote alle spalle della nuova stazione centrale, anche se ogni tanto il ritrovamento di una bomba inesplosa da 500 chili della seconda guerra mondiale ricorda il passato che non passa e costringe a evacuare 10.000 persone, prima di disinnescarla. È stato restaurato il Pergamon sull’Isola dei Musei e, su tutte, è in corso la ricostruzione critica nel centro della città del castello degli Hohenzollern, su progetto dell’italiano Franco Stella.

Sono in tanti qui a intravedere l’autorappresentazione di una Germania che si vuole nuovamente assertiva e protagonista. In tanta volontà di potenza e spiegamento di tecnica, non sempre tutto funziona alla perfezione: il nuovo aeroporto Berlin-Brandeburg, intitolato a Willy Brandt, doveva essere inaugurato nel 2011. Sette anni dopo, con costi più che triplicati rispetto alle previsioni originali, non è ancora aperto: “Un disastro dell’ingegneria tedesca”, lo ha definito un quotidiano.

DOVE LA RIUNIFICAZIONE C’È STATA DAVVERO. Ma la risposta alla domanda sul cambiamento va molto oltre l’arredo urbano e lo skyline di una città, dove la Storia continua a urlare da ogni strada e da ogni piazza. È una risposta complessa, ricca di luci e ombre. Berlino in un certo senso è molto più avanti del resto del paese sulla strada della riunificazione effettiva.

Visto dall’alto, il divario tra le due Germanie è ancora da colmare, nonostante la Grosse Koalition, la terza sotto la guida di Angela Merkel, abbia deciso di abolire progressivamente la Solidaridaetzuschlag, la tassa di solidarietà sui contribuenti dell’Ovest che è servita a finanziare la riunificazione, come se il problema della rinascita dell’Est fosse già stato risolto. No, la strada in realtà è lunga. Il reddito medio lordo mensile nei Land dell’Ovest è di 3.600 euro, in quelli dell’Est non arriva a 2.700 euro. I pensionati occidentali hanno in media il 30% in più di pensione dei loro pari età orientali, mentre la disoccupazione, che a Ovest è poco sopra il 5%, all’Est schizza all’8%. Non solo.

Qualcosa di più profondo separa le due metà nonostante i passi da gigante compiuti in questi 28 anni. Il calcio, per esempio, passione totale e pilastro dell’identità post-bellica, che nei trionfi della nazionale ritrovò orgoglio e fiducia: tre decenni dopo la caduta del Muro, solo una squadra dell’Est, il Lipsia, milita nella Bundesliga, la serie A tedesca. Anche le percezioni reciproche raccontano molto: il 34% dei tedeschi dell’Est considera quelli dell’Ovest arroganti e presuntuosi, mentre la metà di loro pensa che ci siano profonde differenze di mentalità con i loro connazionali occidentali. Pensiero ricambiato dal 53% di questi ultimi. Ancora più grave è che la transumanza post riunificazione sia stata a senso unico: ben 2 milioni di persone hanno lasciato i Land della ex DDR dal 1989 a oggi per cercare fortuna in quelli dell’Ovest. In senso opposto si registrano poche decine di migliaia di casi.

Ma Berlino racconta un’altra storia. Non è più il tempo del Muro nelle camere da letto, che nel 1999, dieci anni dopo il crollo, vedeva appena 350 degli oltre 10.000 matrimoni celebrati nella capitale contratti tra una persona dell’Est e una dell’Ovest. Oggi questa statistica sul basso livello di integrazione sentimentale non esiste più. Ma soprattutto, la città è veramente cresciuta insieme. I nuovi quartieri residenziali e alla moda sono quelli dell’Est, Prenzlauer Berg, Friedrichshain e Neukoelln. La Szene artistica e creativa, le gallerie, i club, le start-up sono tutti concentrati nella zona orientale. Nel frattempo però anche a ovest ho visto segnali forti di una rinascita. Il Kurfuerstendamm, la strada che simboleggiò l’eleganza di Berlino Ovest, è tornato fastoso e trafficato. Come agli inizi del Novecento, Charlottenburg è di nuovo la meta preferita dei russi benestanti che hanno a Berlino il loro primo approdo in Europa occidentale. L’area dello zoo – negli anni Settanta triste sinonimo di droga, prostituzione e criminalità – è uno dei nuovi luoghi di appuntamento della movida, tra il Bikini Bar e il Waldorf Astoria.

E allora, se proprio vogliamo andare a cercare una differenza, dobbiamo rifugiarci nelle percezioni estetiche. “Quando la sera esco, lo so subito chi viene dall’Ovest e chi dall’Est”, mi dice Nancy Petermann, 26 anni, nata nel quartiere orientale di Koepenick due anni dopo la caduta del Muro. “I Wessie sono più sfacciati e vestono sempre con brand costosi. Gli Ossie sono più timidi e non badano molto all’apparenza”.

Ve ne rendete conto anche ai concerti di musica classica: in marzo alla Staatsoper, alla prima del Falstaff diretta da Daniel Barenboim con la regia di Martone, volti e abbigliamenti davano l’impressione di un tuffo nel passato del socialismo reale. Un pubblico molto meno formale, più giovane e scapigliato è quello che affolla i concerti alla Philarmonie, dove a giugno il grande Simon Rattle lascia dopo 14 anni il podio che fu anche di Karajan e Claudio Abbado. Al suo posto arriva il russo Kirill Petrenko, forse il più talentuoso dei giovani direttori d’orchestra.

Alcune cose in realtà hanno sempre unito i berlinesi dell’Est e dell’Ovest, in fondo separati solo per poco più di 28 anni. La famosa Berliner Schnauze, per esempio, quel tratto ruvido, burbero, ogni tanto anche sgarbato nel quale indulgono e del quale sembrano compiacersi.

BERLINO, GERMANIA. Ma ne esiste un’altra, ancora più decisiva e generale, nel senso che appartiene all’identità non solo di Berlino ma di tutta la nazione tedesca, quasi a conferma che i sistemi sociali e politici raramente scalfiscono lo stato d’animo profondo di un paese. “Risparmiare, storia di una virtù tedesca”, è il titolo di una mostra aperta fino a fine agosto al Deutsches Historisches Museum – quello che Helmut Kohl volle ridisegnato da I.M. Pei. È un viaggio straordinario attraverso oltre due secoli di sobrietà, che hanno modellato profondamente il rapporto dei tedeschi col denaro, fino a far diventare la propensione al risparmio, l’idea ancora prima della pratica, parte dell’identità nazionale, stato d’animo e precetto di vita allo stesso tempo. Una virtù, quella della parsimonia, ormai interiorizzata, che i tedeschi pretendono da se e dagli altri e che attraversa come un filo rosso tutta la loro storia. C’è bisogno di aggiungerlo? La mostra è una formidabile chiave di lettura della politica europea degli ultimi dieci anni.

Epilogo di un ritorno. Non resta molto oggi del Muro di Berlino. Fisicamente, in primo luogo: dei 155 chilometri di cemento che circondavano i settori occidentali, rimangono in piedi soltanto alcuni tratti, poco più di due chilometri in tutto. Ma nella capitale tedesca, la città senza ombre, non resta molto neppure del suo retaggio culturale e politico. Per le nuove generazioni non è più neppure un lontano ricordo, non riescono a immaginarsi come potesse essere la vita in una città divisa, una metà ostaggio, l’altra metà oppressa. Ancora una volta, com’è scritto nel suo codice genetico, Berlino sembra voler guardare avanti, sempre così intenta a diventare qualcosa da non riuscire mai veramente a pensare cos’è, ora e adesso. Che poi, in fondo, è il suo vero fascino: nel bene e nel male, una grande metafora della modernità.

*Questo articolo è stato pubblicato su Aspenia 81 – “Il ritorno delle città-Stato”.