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Autolesionismo “made in USA”

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Le dimissioni sono un dato di fatto della vita politica – e non solo. Lasciare un incarico, o essere costretti a lasciare, è un’evenienza che si deve mettere in conto. A volte è un segnale di coraggio e rigore. Il problema per l’amministrazione Trump, dopo il cambio al vertice del Dipartimento di Stato, è che i segnali sono sommersi dal rumore.

L’ex Segretario di Stato Rex Tillerson

 

La lunga serie di dimissioni lascia davvero disorientati, soprattutto per le profonde differenze tra i personaggi coinvolti. A lasciare l’amministrazione sono state infatti figure-chiave che però hanno poco in comune tra loro: tra queste Gary Cohn come capo del National Economic Council (con un ruolo cruciale per la messa punto della riforma fiscale e come “ponte” verso il mondo del business) appena una settimana prima di Tillerson; a fine febbraio Hope Hicks come Communications Director (giovane con poca esperienza ma vicina a Trump dall’inizio dell’avventura elettorale); in agosto lo “stratega” della destra populista Steve Bannon; a fine luglio Reince Priebus (l’uomo di partito che doveva garantire i rapporti con l’establishment repubblicano). Insomma, si tratta di uno schema ormai ricorrente che, paradossalmente, è al tempo stesso privo di regolarità: tutti trovano difficilissimo lavorare con questo Presidente ma spesso non è chiaro il motivo delle dimissioni.

Anche la rapidità dei cambiamenti è insolita: Michael Flynn come National Security Advisor, ed Anthony Scaramucci come Communications Director (prima della promozione di Hicks), durarono addirittura pochi giorni. Si fatica a tenere traccia degli avvicendamenti.

Senza perdersi nei rivoli dei singoli casi, emerge comunque un quadro di massicci errori di valutazione e selezione del personale, aggravati dalla mancata nomina dei livelli medio-alti dei vari ministeri – che priva l’amministrazione di competenze in alcuni casi essenziali per fare scelte oculate e informate.

Intanto, la netta sensazione è che il Comandante in Capo ritenga di poter fare a meno di chiunque – forse perfino della figlia e del genero. I due – Ivanka Trump e Jared Kushner – resistono ancora nei loro ruoli, ma a fronte di ben poche operazioni politiche tangibili al loro attivo, e di fatto quasi svuotati di contenuto anche nell’ambito delle loro posizioni formali (consigliere presidenziale la prima, mediatore per il Medio Oriente il secondo). Ci sono da sempre ipotesi su una sorta di “piano di successione” per lanciare proprio Ivanka, o magari Kushner o entrambi, nei prossimi anni; nulla si può escludere, ma in un contesto totalmente instabile come quello che domina a Washington si tratta di una questione oggi secondaria perché troppo lontana nel tempo (soprattutto nel “tempo compresso” dell’era Trump).

Apportare cambiamenti ai vertici governativi è fisiologico, e il capo dell’esecutivo in un sistema presidenziale ha il potere e il diritto di cambiare in corsa. Ma la confusione sulla sostanza delle scelte, e sui seguiti operativi delle scelte generali che vengono annunciate, è patologica e in alcuni settori pericolosa.

Ad oggi, ci resta una consapevolezza di tipo “socratico”: sappiamo di non sapere chi sarà a fianco del Presidente nei prossimi mesi. Al di là dell’incertezza che ciò genera nel resto del mondo, continua a non essere chiaro come questo modo di fare politica possa beneficiare gli Stati Uniti.