Non è più tempo di guerra fredda. O almeno così sembra, a giudicare dalla prima visita ufficiale negli Stati Uniti del presidente della Repubblica popolare cinese, dal 22 al 26 settembre. Xi Jinping è riuscito a trovare con Barack Obama un’intesa più o meno convincente su molti temi al centro della fitta e spinosa agenda politica di questo viaggio: cyber-sicurezza, lotta all’inquinamento, dispute territoriali nel Mar Cinese meridionale, economia – mentre resta intrattabile la questione dei diritti umani. C’è comunque la frase, a metà tra la domanda e l’appello, pronunciata dal presidente americano nella conferenza stampa finale, a indicare che quel nuovo ordine mondiale retto dall’asse sino-americano (auspicato da alcuni e paventato da altri) è ancora di là da venire: “Ora la domanda è: alle parole seguiranno i fatti?”
Le premesse dell’incontro tra i leader dei due paesi più importanti del mondo non erano delle migliori. Obama aveva il compito di far pervenire Xi a più miti consigli per quanto riguarda l’assertività di Pechino nel Mar Cinese meridionale e la piaga dei cyber-furti commerciali, spesso imputabili alla Cina, che costa alle aziende americane decine di miliardi di dollari all’anno. Xi doveva convincere gli investitori stranieri che l’economia cinese non sta scricchiolando, come i numeri sembrano invece suggerire, e che il business climate per le società americane migliorerà, nonostante le apparenze. In più, doveva dimostrare agli oppositori e ai critici del governo in patria che la Cina è tenuta nella più alta considerazione dalla principale potenza mondiale.
Fin dalle prime battute della sua visita, Xi ha sottolineato di non essere in alcun modo interessato a uno scontro: “Cina e Stati Uniti rappresentano un terzo dell’economia mondiale, un quarto della popolazione globale, un quinto del commercio globale”, ha esordito a Seattle. “Se due grandi paesi come i nostri non cooperano l’uno con l’altro, immaginate cosa potrebbe accadere al mondo”. Dimostrandosi un buon conoscitore dell’America, che ha visitato sei volte, si è fatto apprezzare dal suo uditorio con citazioni ad effetto: dalla serie televisiva di successo House of Cards, al mojito amato da Ernst Hemingway. Ma dopo l’incontro con oltre 600 amministratori delegati americani, ha saputo anche badare al sodo, firmando un accordo con Boeing dal valore di 38 miliardi di dollari per l’acquisto di 300 jet e l’apertura in Cina di una fabbrica di assemblaggio finale degli aerei di linea 737.
Negli incontri a Washington, Obama ha fatto di tutto per mettere Xi a suo agio, accogliendolo con una cerimonia elaborata e prestigiosa, invitandolo a cena due volte (non era mai successo), moltiplicando i momenti di dialogo informale e sottolineando la necessità di “cooperare”, pur senza nascondere che “ci sono tra noi delle differenze che dobbiamo affrontare con franchezza”. Questo approccio ha prodotto risultati, ma per sapere se sono davvero buoni bisognerà aspettare i prossimi mesi, o perfino anni.
Per quanto riguarda il tema della sicurezza, ad esempio, Cina e Stati Uniti hanno promesso di non perseguire e di non sostenere attività di cyber-spionaggio. Inoltre, è stato stabilito un meccanismo di comunicazione diretta tra alti funzionari dei due paesi, che prevede due occasioni annuali di confronto diretto. Obama aveva in precedenza accusato la Cina di “aggressione” per il furto dei dati sensibili di 21,5 milioni di americani, tra cui ben 5,6 milioni di dipendenti federali. Pechino ha sempre respinto al mittente le critiche, ribadendo di essere anch’essa vittima di hackeraggi continui, ma da quando l’anno scorso l’America ha accusato cinque membri dell’esercito cinese, dimostrando le loro gravi responsabilità, non può più far finta di niente. Inoltre, Obama ha ricordato a Xi che in caso di violazioni e nuovi casi di cyber-furti è pronto ad approvare sanzioni contro Pechino. L’accordo trovato dai presidenti è sicuramente un passo avanti, anche se molti si chiedono se la Cina chiederà davvero alle unità specializzate dell’Esercito popolare di liberazione di smettere di condurre cyber-attacchi. Come dichiarato da Obama, bisogna vedere appunto se “alle parole seguiranno i fatti”.
Anche l’intesa raggiunta sulle manovre di Pechino nel Mar Cinese meridionale non è stringente. Tutta l’Asia è preoccupata dalla crescente assertività nel Mar Cinese nel Pacifico, dove Pechino sta occupando le Spratly Islands, che distano 600 miglia dalle sue coste e che sono contese con altri Stati del Sudest asiatico (Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam). A maggio, quando alcuni aerei americani le hanno sorvolate, la Cina ha lanciato più volte avvertimenti minacciosi, pur non avendone titolo dal punto di vista legale. Gli Stati Uniti temono anche la pesante militarizzazione delle isole e il pericolo che questa può portare alle affollatissime rotte navali che passano in quei tratti di mare. Xi ha ribadito che le Spratly appartengono “storicamente” alla Cina ma ha anche promesso che rispetterà la libertà di navigazione nella zona. Per evitare poi incidenti dovuti a problemi di comunicazione o “errore umano”, è stato annunciato che “nuovi canali di comunicazione verranno aperti tra i nostri eserciti”. È legittimo domandarsi però quanto gli impegni assunti ufficialmente da parte cinese siano credibili, dal momento che il presidente Xi ha affermato di non essere interessato a “militarizzare le isole”, pur avendo già schierato su diversi avamposti mezzi di artiglieria pesante.
Lo stesso vale per gli annunci sul dossier della tutela ambientale: Xi ha assicurato che la Cina introdurrà nel 2017 un sistema di compravendita dei diritti di emissione di diossido di carbonio per tutti i maggiori settori industriali, migliorerà entro il 2019 gli standard per i carburanti usati dai camion pesanti e aiuterà i paesi in via di sviluppo a tagliare le emissioni inquinanti stanziando 3,1 miliardi di dollari (più degli Stati Uniti). Queste promesse si aggiungono allo “storico accordo”, raggiunto nel novembre dell’anno scorso, quando Washington ha assicurato che ridurrà le emissioni di gas serra del 25-28% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025, e Pechino che ne fermerà l’aumento entro il 2030 (portando per questa data la produzione totale a dipendere per il 20% da fonti pulite). Molti analisti e responsabili politici americani dubitano che la Cina possa davvero raggiungere simili obiettivi, visto che il 90% della sua economia si basa sui combustibili fossili e visto che gli obiettivi di crescita perseguiti dal governo restano molto elevati. Xi però sa quanto la lotta all’inquinamento sia diventato un tema sensibile per la popolazione cinese e potrebbe non lasciarsi sfuggire l’occasione di ammodernare l’apparato industriale del suo paese.
Sui diritti umani, invece, non è stato trovato nessun accordo, neanche di facciata. Obama ha chiesto timidamente più libertà per il Tibet e Xi si è limitato a concedere che la democrazia e i diritti umani sono “obiettivi importanti”, ma che le riforme in questi campi procederanno “secondo la nostra tabella di marcia”. Se anche il recente arresto di almeno 286 tra avvocati e attivisti per i diritti umani fa parte di questa tabella di marcia, però, difficilmente si vedranno progressi nei prossimi mesi.
A quarant’anni dalla diplomazia del ping-pong e dalla stretta di mano tra Richard Nixon e Mao Zedong, Xi e Obama hanno dimostrato di voler proseguire nella direzione del dialogo e non in quella dello scontro. Ma i tempi non sembrano ancora maturi per realizzare la visione del segretario del Partito comunista, che in California nel 2013 aveva descritto così le possibili relazioni future tra Cina e Stati Uniti in tre punti: “Nessun conflitto né scontro, rispetto reciproco per i rispettivi interessi chiave e principali affari, cooperazione vantaggiosa per entrambi”. Ci vorrà un grande esercizio di leadership da entrambe le parti per realizzare nei fatti questa agenda ambiziosa.