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Washington, stretta fra i rischi di Ebola e la minaccia di ISIS

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La morte di Thomas Eric Duncan, il primo caso di Ebola diagnosticato negli Stati Uniti, segna uno dei momenti più delicati del secondo mandato di Barack Obama. La Casa Bianca, già fortemente criticata dagli avversari politici e dai media per l’approccio al dossier siriano-iracheno, si trova in questo momento sotto il fuoco incrociato di polemiche e interrogativi che rendono il clima generale tutt’altro che sereno.

Occorre tuttavia cercare di separare, in una società dove l’impatto dei media rispetto a notizie ad alto potenziale emotivo (epidemie, guerre, terrorismo) è considerevole, quali siano i fattori evidentemente critici sul campo e quali invece siano argomenti che rientrano nella competizione politica interna. Una logica propagandistica, infatti, è perfettamente naturale quando si è a ridosso della tornata elettorale di mezzo termine.

L’America è un paese pragmatico, ma nel quale la simbologia gioca un ruolo determinante. L’epidemia di Ebola, per un gioco ineluttabile della sorte, parte da uno Stato africano – la Liberia – che nel nome stesso, nei colori della bandiera, nella capitale (Monrovia, dal nome del 5° presidente degli Stati Uniti, James Monroe), e per soprattutto storia costituzionale, è stata un’estensione dell’idea d’America. Dunque, è anche un simbolo potente del fallimento di quell’idea in Africa.

Il primo caso americano di Ebola è stato registrato in Texas, uno stato tradizionalmente conservatore poco indulgente con le presidenze democratiche. Fa ancora parlare l’incidente di agosto, quando il governatore repubblicano dello Stato, Rick Perry, ha disobbedito al Presidente Obama inviando al confine col Messico 1.000 uomini della Guardia Nazionale; la vicenda Ebola non poteva quindi arrivare in un momento peggiore e nel luogo simbolicamente meno adatto, con le autorità texane che vogliono sigillare la propria frontiera rispetto all’immigrazione messicana e si chiedono, supportati dalla stampa amica anche a livello nazionale, perché il Presidente non sospenda i voli con l’Africa occidentale (come hanno invece fatto Londra e Parigi).

In altre parole, la Liberia e il Texas appaiono come l’emblema di quello che gli Stati Uniti hanno fatto, o meglio non fatto, in una parte del continente africano. Se si somma quest’interrogativo a quello che l’amministrazione ha fatto, o non fatto, nel teatro siriano-iracheno, ecco che gli ingredienti per un attacco politico-mediatico sono serviti, con un ulteriore aggravante: il quinto ostaggio che ISIS minaccia in questi giorni di decapitare è un americano (Peter Edward Kassig).

Che sia casuale o no, anche l’ex Presidente Jimmy Carter ha scelto il Texas come teatro della sua recente esternazione contro Obama; da Forth Worth, Carter ha sostenuto che in Siria il Commander-in-Chief ha esitato troppo a lungo a sostenere, o meglio armare, l’opposizione, permettendo a ISIS di crescere e radicarsi. È una circostanza quantomeno irrituale, essendo raro che un ex presidente critichi quello attualmente in carica. Fatto politicamente più rilevante, due ex-capi del Pentagono che hanno servito proprio sotto Barack Obama – Leon Panetta e Robert Gates – hanno anch’essi criticato il Presidente per il suo attendismo e multilateralismo.

Se –queste prese di posizione sono rivolte a una parte di opinione pubblica più sofisticata, quella di Donald Trump raccolta da Fox News (il principale network conservatore del paese) copre una fascia di pubblico probabilmente più impulsiva, ma la sostanza non cambia: Obama non è in grado di gestire la complessità internazionale nell’interesse dell’America.

Fox ha poi fatto seguire alla dichiarazione di Trump un’intervista a un altro ex Presidente – il “texano” George W. Bush – secondo il quale in Iraq lasciare il lavoro a metà è stato un grave errore, e la lotta iniziata dopo l’11 settembre va interpretata non nel medio ma unicamente nel lungo periodo. Una posizione, questa, più prevedibile, viste le ben note e profonde divergenze tra Obama e il suo predecessore riguardo alla lunga vicenda irachena.

La questione di Ebola si inserisce dunque in un contesto già molto delicato per la Casa Bianca. Le domande sul tavolo, e sulla bocca di molti americani, sono semplici: perché Duncan è stato fatto arrivare negli Stati Uniti? Perché una volta visitato a Dallas è stato mandato a casa senza che il virus fosse riconosciuto? Perché si sono lasciati esporre altri individui al contatto con la persona infetta? Perché le “frontiere” aeree con l’Africa orientale restano aperte? Sono interrogativi che ricadono nella dialettica Casa Bianca-Texas, nel rimpallo di responsabilità locali o federali, nei titoli gridati della stampa in un momento di grande paura collettiva e di incertezza sulla gravità della minaccia alla salute pubblica.

Intanto, anche sul versante ISIS un quesito di fondo si fa ogni giorno più insistente: Perché dopo due settimane di attacchi aerei la cartina delle roccaforti dell’ISIS non è cambiata? La percezione diffusa è che nella grande polveriera mediorientale siano stati di nuovo commessi alcuni errori.

Il Paese chiave è in questo momento la Turchia. Ieri il Primo Ministro (ed ex Ministro degli Esteri) Ahmet Davutoğlu è stato esplicito: avevamo avvisato gli Stati Uniti dell’ascesa di ISIS. Davutoğlu ha inoltre detto a chiare lettere che la Turchia è pronta a intervenire in Siria con il proprio esercito a patto che ci sia, da parte degli USA, una strategia integrata sul problema: in estrema sintesi, la rimozione di Assad. Su questo Obama non ha ancora deciso (e potrebbe non arrivare affatto a una decisione chiara) mentre il Pentagono ha ammesso che i bombardamenti non avranno la capacità di fermare il califfato, e dopo la caduta di Kobane altre città patiranno la stessa sorte. Un’ammissione d’impotenza forse troppo marcata per la super-potenza americana, che porta a tensioni con gli alleati regionali se è vero che Joe Biden ha dovuto chiamare al telefono il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per scusarsi delle critiche fatte pochi giorni prima, e riconoscere come la Turchia, specie in termini di emergenza umanitaria, abbia fatto sforzi enormi. Rimane comunque per ora sospesa la richiesta di Ankara di una no-fly zone sulla zona di confine con la Siria.

La caduta di Kobane potrebbe essere un pungolo per la comunità internazionale ad agire ma di fatto la carta decisiva è in mano a Obama: dare garanzie di maggiore impegno diretto contro Assad è una precondizione. Probabilmente, l’aiuto turco per importanti operazioni terrestri è ad oggi la sola opzione credibile che gli Stati Uniti o la NATO potranno sfruttare per non dover tornare in prima persona nel teatro di guerra mediorientale.

In vista delle elezioni di novembre (Camera, un terzo del Senato, e numerose elezioni locali) non bisogna tuttavia dimenticare un dato determinante: la presidenza Obama sta raccogliendo ottimi risultati in campo economico. La piena occupazione è stata raggiunta, Wall Street gira su volumi e numeri da record. La politica interna era d’altronde, in modo esplicito, il primo punto in agenda per questo mandato presidenziale.

Il principio del Nation Building at Home sul versante economia sembra quindi aver avuto la giusta attenzione e aver prodotto risultati alcuni concreti. La crisi del 2008 è un pallido ricordo e probabilmente ciò avrà un peso in termini elettorali; non è quindi scontato, nonostante le criticità in gioco in politica estera, gli errori commessi dall’amministrazione Obama e la latente psicosi per il virus Ebola, che i Repubblicani dopo le elezioni di mezzo termine avranno il controllo di entrambe le camere. D’altro canto, le sfide per Obama restano davvero complesse, qualunque sia l’esito del voto del 4 novembre.