Tzipi Livni, leader di Kadima, ha vinto di un soffio le elezioni israeliane. O meglio di un seggio. Il Partito di centro, orfano di Ariel Sharon, ha ottenuto 28 seggi alla Knesset contro i 27 del Likud, guidato da Binyamin Netanyahu. In una logica che si potrebbe definire all’italiana, sia Livni che Netanyahu hanno parlato di vittoria. Come leader del partito di maggioranza relativa, l’attuale ministro degli esteri rivendica l’incarico alla formazione del nuovo governo. Ma lo fa anche il suo avversario, sottolineando lo spostamento a destra dell’elettorato (dimostrato anzitutto dall’ascesa di Yisrael Beiteinu, il partito di Liebermann, che ha superato un Labour in picchiata).
L’unica cosa sicura, per ora, è lo stallo prodotto dai risultati: se verrà incaricata di formare il governo, Tzipi Livni dovrà comunque cercare di costruire una difficile coalizione. Appare logica, quindi, la sua offerta iniziale al Likud: costruire un governo di unità nazionale. Ipotesi che però Bibi Netanyahu non ha un uguale interesse ad accettare: per lui, probabilmente, mettere insieme un governo di coalizione sarebbe più semplice.
Kadima ha assorbito i voti del Labour Party, che ha toccato così il suo minimo storico (13 seggi). Il prestigio personale di Ehud Barak, Ministro della difesa, non è bastato a frenare la perdita di consensi. L’opinione israeliana è oggi prevalentemente di centro o di destra: a sinistra, dopo i conflitti degli ultimi anni, resta ben poco. Abbattendo il governo Olmert, così commentano gli analisti israeliani, il Labour si è procurato un olocausto elettorale. Più che per l’ascesa di Liebermann, queste elezioni verranno ricordate per il disastro del Labour
Tzipi Livni, autrice di una clamorosa rimonta nell’ultima settimana, ha prevalso per due ragioni: perché si è mostrata dura sul fronte di Gaza e perché ha le mani pulite. L’hanno votata anzitutto le donne, di tutte le classi sociali. Una parte degli analisti escludeva che esistesse spazio, nella situazione di oggi, per la leadership di una donna centrista e non estremista. E’ uno spazio che esiste e che dimostra la vitalità della democrazia israeliana.
Sul fronte opposto, il Likud è stato invece danneggiato dall’ascesa di Ysrael Beitenu (15 seggi), il Partito anti-arabo guidato da Avigdor Lieberann, emigrato dalla Moldavia a Gerusalemme quando aveva venti anni. In pochi anni, da forza politica marginale l’estrema destra dell’emigrazione russa è diventata un peso determinante. La terza forza politica del paese. Che ha anche danneggiato il partito della destra religiosa, lo Shas, la cui ascesa si è questa volta arrestata (11 seggi).
Il quadro post-elettorale può quindi essere sintetizzato così: la vincitrice è una donna dura ed onesta, Livni; ma Netanyahu tiene in mano le chiavi del gioco. Di fronte a sé, ha una decisione difficile. Se decidesse di formare un governo di coalizione di centro-destra, Bibi si troverebbe a dipendere da un politico controverso come Liebermann e avrebbe difficoltà con l’America di Obama. Come nel 1996, questo schiacciamento sulla destra finirebbe per danneggiarlo.
L’alternativa è la formazione di un governo di unità nazionale, con al centro il Likud e Kadima. Ma per Bibi questa formula è accettabile solo se combinata alla premiership, mentre è Livni a rivendicare tale posizione per sé. Il compromesso, già sperimentato in passato, potrebbe essere una premiership a rotazione: Livni premier per i primi due anni, seguiti da due anni di Netanyahu.
Assieme a Livni, l’altro vincitore morale di questa difficile campagna elettorale è Avigdor Liebermann, che ha condotto una campagna “interna”, basata sullo slogan della fedeltà allo Stato ebraico. Traduzione: gli arabi israeliani, circa il 20 della popolazione, devono scegliere fra una fedeltà dimostrata allo Stato ebraico o la perdita della cittadinanza. E la fedeltà sarà dimostrata dall’obbligo del Servizio militare o civile. Per ora, la minoranza araba ha risposto in modo opposto, con un tasso di astensionismo elettorale senza precedenti.
Secondo punto della piattaforma di Libermann: un approccio durissimo alla sicurezza, che guarda all’eliminazione completa di Hamas, respinge la trattativa con la Siria e promuove una linea più aggressiva verso l’Iran. La soluzione della questione palestinese, per Liebermann, non va negoziata ma imposta. Creando accanto allo Stato ebraico anche uno Stato palestinese, sì, ma ridotto e diverso rispetto ai confini del 1967. Israele trasferirebbe alcune aree a maggioranza Araba all’autorità palestinese; ma annetterebbe una parte rilevante della West Bank e manterebbe l’intera Gerusalemme.
Il risultato complessivo, scrive il quotidiano Ma’ariv, è una crisi politica non prevista. Kadima ha vinto ma non può governare senza un accordo con il Likud e con la destra di Liebermann, che invece propende per Netanyahu.
In questa situazione, Shimon Peres, presidente della Repubblica, potrebbe effettivamente decidere di dare l’incarico al leader del Likud. La costituzione glielo permette. Ma non potrà né vorrà certo ignorare la vittoria di Livni. I precedenti indicano che il Presidente ha quasi sempre incaricato il leader del partito di maggioranza relativa, ma quando esistevano buone chances di creare una coalizione. L’eccezione, significativa, è il precedente del 1984: un governo di unità nazionale, con una premiership a rotazione fra Yitzkhak Shamir e Shimon Peres stesso.
Gli argomenti a favore di una “grande coalizione” all’israeliana sono quindi molto forti. Così come gli argomenti a favore di un meccanismo di rotazione alla guida del governo. Nell’insieme è una formula abbastanza astrusa e che in ogni caso prenderà tempo per concretarsi. Ma è anche l’ipotesi più gradita a un’amministrazione americana che ha deciso di tornare nel gioco, sul fronte israelo-palestinese. Per farlo, avrà bisogno di un governo israeliano capace di decisioni difficili. Un governo di unità nazionale potrebbe esserlo. Ammesso, e non concesso, che riesca a non farsi paralizzare dalle divisioni interne.
Further reading
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“La politica estera come politica interna” by Claudia De Martino
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