L’ordine mondiale e i grandi assetti geopolitici dipendono dall’evoluzione di fattori di potenza interni ed esterni più profondi rispetto alla “guerra al terrore” (“Global War on Terror”, GWOT) dichiarata dagli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre 2001. Si tratta di valutare quello che i cinesi chiamano “potenziale militare nazionale”, basato non solo su complessi calcoli dei rapporti di forze materiali, ma anche sul prestigio di uno Stato e sul potere di attrazione e di influenza che esercita sugli altri. In altre parole sulla correlazione delle forze materiali e morali.
Le conseguenze indirette della GWOT sono state più rilevanti di quelle dirette. La concentrazione, quasi ossessiva su di essa, ha distratto l’attenzione degli USA dalle aree in cui è in atto un confronto con la Cina (e anche con la Russia) e creato “finestre di opportunità” per Pechino (come per Mosca).
Nel settembre 2011 le relazioni fra gli USA e la Cina erano al loro minimo storico dai tempi della storica visita di Nixon e Kissinger a Pechino nel 1972. Le cause erano state il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado; l’incidente fra un caccia cinese e un velivolo da ricognizione americano; il rinnovato sostegno a Taiwan. Gli attentati capovolsero la situazione. Jiang Zemin fu uno dei primi capi di Stato ad esprimere solidarietà e appoggio a Bush. La Cina sostenne completamente le iniziative americane e fece pressioni sul Pakistan perché appoggiasse l’azione americana, avvalendosi anche degli ambigui rapporti fra il suo servizio di intelligence (ISI) e i talebani afgani.
Le motivazioni di Pechino erano almeno due. La GWOT avrebbe potuto consentire di legittimare sul piano internazionale la repressione della resistenza degli oltre 20 milioni di musulmani cinesi (Uiguri), metà dei quali vivono nel Sinkiang o Turkestan Orientale.
Il Sinkiang ha un ruolo strategico sia come ponte verso l’Asia Centrale, sia per le ricchezze naturali che contiene. La rivolta uigura ha motivazioni etniche ed indipendentiste, mentre il radicalismo religioso è marginale, anche perché gli uiguri sono in gran parte “sufi”, quindi agli antipodi del Wahhabismo salafita. Avevano però ricevuto appoggio da bin Laden: le autorità cinesi sostenevano che oltre 500 terroristi uiguri erano stati addestrati nelle basi di al Qaeda in Afghanistan. Di qui l’entusiastico sostegno di Pechino per la “guerra al terrore” di Washington.
La seconda causa della cooperazione cinese sta nella persuasione che l’impegno degli USA nella GWOT avrebbe aperto alla Cina straordinarie opportunità nel suo “estero vicino”. Pechino non poteva immaginare quanto le sue aspettative si sarebbero in effetti realizzate, con l’insabbiamento degli USA in Afghanistan ed in Iraq e con l’erosione della coesione transatlantica. Se la Cina non ha compiutamente sfruttato tale finestra di opportunità, ciò è dovuto al recupero americano dell’India, al peso comunque significativo del Giappone e al fatto che l’economia cinese è troppo dipendente dalle esportazioni verso gli USA. Inoltre, se le forze terrestri americane sono state completamente impegnate nella GWOT, le potenti forze aeronavali e anfibie sono sempre state in grado di intervenire nei mari considerati “propri” dalla Cina. Pechino è consapevole che le sue indispensabili vie di comunicazione marittima possono essere bloccate negli stretti della Malacca, ad Ovest, e dalla “doppia catena di isole”, ad Est. Questa considerazione ha consigliato estrema cautela, anche nella condanna cinese dell’attacco all’Iraq.
La GWOT è stata ribattezzata da Barack Obama: il nuovo termine è “OSO – Overseas Contingencies Operations”, ma la sostanza non è cambiata, se non per l’intensificazione delle uccisioni mirate di presunti terroristi con i droni della CIA e i raid delle forze speciali. Ciò ha finito per creare tensioni fra gli USA e il Pakistan e di conseguenza con la Cina. Queste tensioni sono esplose con il raid del 1° maggio 2011 in territorio pakistano in cui è stato ucciso bin Laden.
In quell’occasione si è ipotizzato che Washington stesse anche programmando un attacco mirato per impadronirsi delle testate nucleari pakistane e metterle al sicuro prima che cadessero in mano ad estremisti islamici. Pechino ha prontamente dichiarato che avrebbe considerato tale azione un casus belli.
I leader cinesi temono oggi soprattutto l’aumento della presenza americana in prossimità delle acque cinesi. Sanno che, non appena Pechino usa toni più assertivi, i paesi dell’ASEAN corrono a rifugiarsi sotto l’ombrello americano e, in misura crescente, anche sotto quello indiano. La guerra al terrore è pressoché scomparsa dall’agenda degli incontri semestrali fra gli USA e la Cina; per contro, l’antiterrorismo aumenterà d’importanza nella SCO (Shanghai Cooperation Organization), poiché tutti i suoi membri (dalla Cina alla Russia e alle repubbliche centroasiatiche) sono preoccupati dell’aumento dell’islamismo, in particolare a seguito del ritiro americano dall’Afghanistan.
La “guerra al terrore” è ormai passata in secondo piano, rispetto a problemi più impellenti quali la crisi economica, il rischio d’implosione del Pakistan, il rafforzamento dell’India. Questi trend possono modificare gli equilibri strategici mondiali molto più di quanto possa farlo qualche sparuto gruppo di terroristi. Nel complesso, si può affermare senza dubbio che la geopolitica mondiale è tornata ai suoi paradigmi più tradizionali dei rapporti fra le grandi potenze.