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Una crisi di rigetto post-referendum?

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Dal peso della tradizione non si scappa. Per comprendere pienamente la decisione presa il 3 novembre dall’Alta Corte di Londra di non far avanzare i negoziati sul “divorzio del secolo” prima di un dibattito parlamentare, si deve tenere ben presente la storia costituzionale del Regno Unito.

Anzitutto occorre rilevare come il sistema britannico abbia una naturale predilezione per la democrazia rappresentativa, cioè per l’esercizio della sovranità popolare mediata dal Parlamento. Le consultazioni popolari estese a tutti i cittadini del Regno sono state solo tre, e tutte relativamente recenti. I britannici sono stati chiamati alle urne per un referendum per la prima volta nel 1975, proprio per esprimersi sulla permanenza nelle Comunità europee a tre anni dalla firma del Trattato di adesione. Dopodiché bisogna arrivare al 2011 per il secondo referendum – su questioni inerenti al sistema elettorale. Il terzo, lo scorso giugno, è stato quello della Brexit. Le scarse esperienze di democrazia diretta sottolineano insomma che il modello rappresentativo inglese si fonda decisamente sulla dottrina giuridica della sovranità parlamentare.

Dunque, quando si valuta la decisione dell’Alta Corte, più che di distorsione della volontà popolare, è corretto parlare invece di conseguenze derivanti dall’applicazione di un istituto giuridico sostanzialmente estraneo al tessuto costituzionale britannico (pur essendo contemplato): il referendum. Lo stesso conflitto tra diversi poteri che ne è generato è assimilabile a una crisi di rigetto di questo corpo estraneo: la democrazia diretta inceppa il funzionamento di un meccanismo secolare fondato su una tradizione politica di dialettica tra esecutivo e legislativo, che vede i pronunciamenti dal basso come una vera anomalia.

È politica e non giuridica la scelta di utilizzare la via referendaria, come si è fatto con la Brexit, per ricomporre fratture soprattutto interne. E si deve, nel caso specifico, all’imprudenza e alla scarsa visione di David Cameron, che si è affidato alla consultazione popolare scegliendo una strada ad alto rischio. Il tentativo è stato quello disinnescare il populismo del fronte nazionalista del suo stesso partito, facendosi interprete delle critiche alla UE e alfiere del carattere “speciale” del Regno Unito con una dose ulteriore di quello stesso populismo. Un tentativo che non ha pagato: l’innesco è esploso tra le mani dell’ex premier, ponendo fine alla sua carriera politica.

Il dibattito parlamentare accordato dall’Alta Corte è pienamente inserito nella tradizione britannica e può vedersi come un’ulteriore guarentigia democratica. Proprio la Costituzione, che non è scritta ma c’è e pervade la vita politica del Regno, ha posto Westminster al vertice estremo del potere legislativo attraverso la dottrina della supremazia parlamentare, che ha nel controllo dell’Esecutivo una delle sue funzioni principali. Il tutto per evitare che il governo eserciti la propria “prerogativa reale”, si faccia insomma re, soverchiando la rappresentanza popolare. Non sono mancati nella storia del Regno Unito, d’altronde, sovrani decollati – e molto tempo prima dei più famosi colleghi d’Oltremanica.

Come si eserciterebbe questa prerogativa reale nella situazione attuale? Senza un dibattito in Parlamento che detti delle linee guida, il governo avrebbe carta bianca su tutta la gestione della Brexit, a cominciare dalla procedura di recesso, dato che dalle urne è venuto fuori solo un mandato generico di uscire dall’Unione. Il governo godrebbe dunque di un margine di discrezione così ampio da non essere assolutamente ammissibile, nel modello inglese.

Downing Street ha annunciato ora che farà ricorso all’Alta Corte rispetto alla decisione del 3 novembre. La relativa seduta è stata già calendarizzata tra il 7 e l’8 dicembre e la decisione sarà resa pubblica a gennaio. La Corte Suprema è stata una delle novità introdotte nel sistema giudiziario britannico dalla riforma costituzionale del 2005 e dal 2009 ha sostituito nelle sue funzioni l’Appellate Committee della Camera dei Lords, in un’ottica di maggiore separazione dei poteri. Si tratta del terzo e massimo grado giurisdizionale nell’ordinamento britannico e vi si può presentare istanza normalmente dal secondo grado di giudizio, cioè dalle Corti d’Appello.

Solo in casi particolarmente delicati e previo certificato autorizzativo emesso dalla stessa Corte suprema è possibile adire all’ultimo grado direttamente dal tribunale di prima istanza, cioè dalle Alte Corti, operando il “salto” procedurale definito come leapfrog appeal – ciò che è avvenuto in questo caso. Fosse confermata la prima interpretazione quindi, il parere scombussolerebbe certamente il cronoprogramma per l’attivazione dell’art. 50, con cui Theresa May aveva annunciato di voler procedere il prossimo marzo, dopo molti rinvii.

Ma, nella sostanza, il governo deve davvero temere Westminster? Secondo stime precedenti al referendum, il 73% dei parlamentari era per il Remain. Ad oggi però è errato credere che il Parlamento sia ancora schierato per la permanenza nell’UE, perché in quattro mesi sono cambiate parecchie cose. Intanto, il partito di governo, che ha il 56% dei seggi, ha ormai avallato la causa della Brexit. Difficile schierarsi contro anche per i Labour, che nel dopo voto avevano detto di accettare (ovviamente) il responso popolare. I parlamentari sono dunque i primi a essere in una situazione difficile: sembra ardito pensare si possano mettere a cuor leggero contro la maggioranza della popolazione. Bisogna poi considerare che tutto il sistema politico britannico si fonda su un binomio fortissimo tra maggioranza parlamentare e governo – molto più di quanto avvenga nell’assetto italiano, ad esempio.

L’esecutivo guidato dalla May si è dato, nei fatti, un mandato ben preciso consistente proprio nel portare a compimento la decisione referendaria su Brexit, e considera politicamente automatico il sostegno dei suoi parlamentari in tal senso. Se il governo non avesse alle spalle la sua maggioranza sarebbe davvero preoccupante anche senza Brexit, per cui ben venga una verifica del genere, per la solidità dello stesso sistema politico britannico.

Insomma, nonostante gli assetti costituzionali del Paese, il passaggio parlamentare sulla Brexit potrebbe alla fine essere soltanto un passaggio, un intoppo puramente temporale. Tuttavia abbiamo avuto modo di apprendere che, su questa vicenda, i colpi di scena sembrano non finire mai.