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Un vero piano per la Siria, oltre i bombardamenti anti-ISIS

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La Francia di François Hollande ha svolto un’azione militare unilaterale contro l’ISIS in Siria, seppure limitata ad alcuni raid aerei; la Gran Bretagna di David Cameron rilancia l’iniziativa diplomatica per fermare la guerra siriana, di fatto anche a costo di tollerare un ruolo temporaneo di Assad – che fino ad ora i maggiori paesi occidentali consideravano un partner del tutto inaccettabile.

La Russia di Vladimir Putin (a New York per gli incontri a margine dell’Assemblea generale dell’ONU) propone un “gruppo di contatto” (che tra gli altri dovrebbe includere l’Iran) per favorire una pacificazione e transizione post-Assad. Ma solo dopo aver schierato un significativo contingente militare nel maggior porto siriano.

Si conferma intanto, come emerso già da altri segnali (negoziati nel formato “5+1” sull’Iran, e perfino la gestione della crisi ucraina) la volontà americana di mantenere regolari canali di dialogo e collaborazione selettiva con la Russia. Nonostante le tensioni e una persistente sfiducia (reciproca) di fondo, Mosca e Washington possono ancora trovare un’intesa parziale sul destino di Assad che consenta di colpire duramente ISIS e forse far emergere delle controparti locali accettabili per tutti; è stato questo infatti il problema insolubile fino ad oggi, nella totale assenza di alternative al regime alawita.

Per inserire questi sviluppi nel loro naturale contesto, va ricordato che la guerra che ha squassato la Siria dal 2011 è un conflitto tra i più sanguinosi degli ultimi anni, e ha prodotto vasti effetti sui paesi immediatamente circostanti. Una coalizione a guida americana (a cui l’Italia non ha contribuito direttamente) conduce attacchi aerei, sia nel paese che nel vicino Iraq, da oltre un anno. Non è dunque una sorta di crisi latente ma un vero disastro – umanitario e politico – che nessuno è riuscito a fermare, e che molti hanno purtroppo continuato ad alimentare vedendolo come una “guerra per procura” da cui trarre qualche vantaggio.

Cosa è cambiato allora per indurre alcuni paesi-chiave a prendere nuove iniziative sulla Siria? Anzitutto, non c’è dubbio che una spinta diretta è venuta dalla cosiddetta “crisi migratoria” (in effetti, un episodio acuto da attribuire a varie concause all’interno di un macro-fenomeno strutturale legato a differenziali demografici e di sviluppo). È insomma diventato chiaro che il quasi completo collasso delle vecchie strutture statuali in Siria e Iraq (che vanno in parte viste come un unico complesso conflittuale) è l’epicentro di un problema regionale in grado di investire l’Europa in vari modi.

Il secondo fattore di relativa novità è il possibile legame tra la resilienza dell’ISIS in Medio Oriente e il terrorismo internazionale, che proprio in Francia ha colpito nel gennaio scorso (con la firma dell’ISIS, contro Charlie Hebdo) mettendo sotto scacco Parigi e il paese per giorni – cosa che quasi tutti hanno troppo presto dimenticato o rimosso. Ora, se arrivano segnali dall’intelligence che questo legame si fa più stretto, si può anche ricorrere a un’azione preventiva per colpire “ alla fonte”. È un discorso che solitamente si preferisce non fare, soprattutto in modo esplicito, ma un’opzione del genere non si deve escludere a priori.

Un terzo cambiamento intervenuto negli ultimi mesi è la sofferta constatazione che nessuno ha gli strumenti e la volontà politica per realizzare in modo simultaneo tre obiettivi: distruggere la capacità dell’ISIS di agire su larga scala, eliminare Assad dalla scena, e soprattutto controllare il territorio siriano per evitare che un male peggiore di Assad si impadronisca di gran parte del paese (non necessariamente ISIS, ma forze comunque ostili a una “pacificazione inclusiva”). È un vero dilemma soprattutto per l’Occidente, che considera giustamente importanti tutti questi risultati (l’ha spiegato Riccardo Perissich su Aspenia online). E in ogni caso ci sono altri attori regionali con un peso sul terreno.

In pratica, i paesi con qualche grado di influenza sulla Siria si sono concentrati soltanto su un singolo obiettivo (gli occidentali prima su Assad e poi sull’ISIS, i sauditi sul contenimento dell’influenza iraniana, i russi sul salvataggio dello stesso Assad, e infine i turchi sul contenimento dei curdi). Così facendo, nessuno ha raggiunto in pieno il proprio scopo ma intanto la popolazione siriana ha pagato un costo spaventoso che ha finito per riversarsi in certa misura anche fuori dei confini. Dunque, la questione dei flussi migratori verso l’Europa, il terrorismo e il quadro interno siriano si sono alla fine combinati per produrre una crisi macroscopica. Lo stallo della guerra civile in Siria ha ormai un costo crescente per tutti.

Su questo sfondo, la posizione del governo italiano è resa particolarmente difficile dal precedente libico, che infatti è stato evocato anche nelle ultime ore dal presidente del Consiglio criticando – neppure troppo velatamente – l’iniziativa militare francese. Il fatto è che la linea percorribile per la diplomazia italiana è molto stretta: da una parte, è giusto rimarcare che dagli errori si devono apprendere lezioni e che dunque è avventato muoversi in ordine sparso per poi cercare magari qualche appoggio in corso d’opera senza curarsi del dopo-intervento (Libia docet); d’altra parte, non possiamo fare del caso libico una gabbia che ci impedisca di prendere decisioni su altri dossier, e quello siriano è talmente grande e intricato da richiedere un grande sforzo internazionale da cui Roma non può “sfilarsi”. Che ci piaccia o no, la Libia è considerata da tutti i nostri partner come una crisi locale, non comparabile per dimensioni e ripercussioni con quella siriano-irachena.

Inoltre, la motivazione addotta da Parigi per gli ultimi raid aerei contro obiettivi dell’ISIS è tecnicamente difficile da ignorare: si tratta di un interesse di sicurezza nazionale (francese) a fronte di una minaccia terroristica diretta. Forse sì, forse no; ma nessun altro governo può realmente respingere questa giustificazione in modo pubblico, a meno di una gravissima rottura con la Francia. Del resto, vari analisti sostengono da tempo che le capacità di controllo territoriale dell’ISIS possono essere effettivamente ridotte con un insieme di azioni aeree e terrestri, se questo sono coordinate; in altre parole, la nostra superiorità militare può avere un impatto decisivo a date condizioni. Anche se non basterà.

Serve allora un quadro diplomatico, multilaterale ma come sempre fatto soprattutto di gruppi informali e ristretti, per tentare nuovamente di creare le condizioni interne e regionali al fine di scalzare Assad da Damasco senza consegnare il paese a una pluralità di fazioni armate ispirate in maggioranza a ideologie simili a quelle dell’ISIS o di Al-Qaeda. Una diplomazia che comunque richiederà il concorso dello strumento militare. Ci sono diversi modi di contribuire a uno sforzo del genere – al di là delle obiezioni, pur legittime, al “metodo francese”. Si è finalmente identificato un nemico comune a quasi tutti gli attori più rilevanti: combattiamolo, ma intanto prepariamo almeno due “piani di azione” per il giorno della sconfitta sul campo di ISIS. Almeno due, perché il “piano A” fallisce quasi sempre, nel mondo reale; dobbiamo puntare su un dignitoso “piano B”.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Il Mattino il 29 settembre 2015.