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Ucraina: “eurorivoluzione”, nazionalismo e fattore russo

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Nell’autunno del 2004 sembrò che la struttura politica ucraina venisse travolta dalla rivoluzione arancione. La madrina di quel movimento, Julija Tymošenko, sta oggi scontando una pena a sette anni di carcere. Ma le strade e le piazze di Kiev sono tornate ad essere il palcoscenico di imponenti manifestazioni di protesta contro il presidente Viktor Janukovyč; lo stesso leader contro cui il paese si ribellò dieci anni fa.

Secondo alcuni, dunque, quanto sta avvenendo in queste settimane è il compimento della rivoluzione arancione. Ciò che sicuramente si può affermare è che, ancora una volta, l’Ucraina mostra la propria storica divisione tra est e ovest, tra europeisti e russofili; come spesso in passato, ciò che accade nel paese è oggetto di una delicata partita geopolitica che ha come co-protagoniste le capitali europee e Mosca.

È stata la decisione di Janukovyč di non firmare l’accordo di associazione con l’Unione Europea a scatenare le proteste di piazza il 21 novembre: da quel giorno le folle hanno continuato a riempire le strade di Kiev sventolando le bandiere dell’UE, nonostante già il 30 novembre, durante una grande manifestazione in Piazza dell’Indipendenza (Maidan Nezaležhnosti), ribattezzata Euromaidan, le forze speciali abbiano attaccato i manifestanti originando violenti scontri. L’opposizione a Janukovyč e al russofilo Partito delle Regioni è guidata da tre figure in particolare: l’ex-ministro degli Esteri Arsenij Jacenjuk del partito Batkivscina (Patria), di cui ha ereditato la guida da Julija Tymošenko; l’ex-pugile Vitalij Klyčko del partito Udar (Pugno); e il capo ultra-nazionalista Oleh Tiahnybok del partito Svoboda (Libertà).

Benché la piazza non accennasse a calmarsi, a metà dicembre il presidente Janukovyč ha sottoscritto un accordo con la Russia che prevede uno sconto di un terzo sul gas fornito da Mosca fino al 2019 e l’acquisto di titoli di Stato ucraini: per molti si tratta della ricompensa al voltafaccia nei confronti dell’UE. Un mese dopo, di fronte al protrarsi dell’occupazione di Piazza dell’Indipendenza, la Rada (il parlamento ucraino) ha approvato una serie di misure repressive che limitano le libertà di espressione e di manifestazione, trasformando in reato ogni protesta contro il governo e consentendo alle forze dell’ordine l’uso di armi da fuoco.

Lungi dal sortire l’effetto sperato, il provvedimento ha fatto dilagare le proteste oltre i confini della capitale: le forze di opposizione hanno occupato numerosi palazzi dei governi regionali, scegliendo la strada dell’aperta rivolta contro il regime del presidente. L’ulteriore radicalizzazione dello scontro ha anche rafforzato la frangia di manifestanti violenti legati all’estrema destra nazionalista, come il gruppo Pravij Sektor (settore destro), che agisce nelle piazze come una milizia con l’intento di imprimere una svolta alle manifestazioni ritenute troppo blande.

In seguito all’aumento della violenza – il numero di morti e feriti tra i manifestanti ancora non è definito né probabilmente definitivo – e di fronte alla risonanza mondiale degli eventi, Janukovyč ha cercato di correre ai ripari. Per prima cosa ha proposto all’opposizione la guida del governo, ma di fronte al rifiuto ricevuto (con richiesta di elezioni anticipate) ha finito per accettare le dimissioni dell’esecutivo guidato da Mykola Azarov e abrogare le norme repressive, oltre ad approvare l’amnistia per i manifestanti arrestati nei giorni precedenti – ponendo come condizione lo sgombero degli edifici pubblici ancora occupati dagli oppositori.

Quella che all’inizio è stata soprannominata un’eurorivoluzione, caratterizzata dallo sventolio delle bandiere dell’UE e dal convinto europeismo, ha progressivamente visto prevalere l’elemento nazionalista. Lo stesso europeismo iniziale va probabilmente letto più in chiave anti-russa (emblematica è stata la distruzione da parte dei manifestanti della statua di Lenin a Kiev). Per i manifestanti l’Unione rappresenta soprattutto la possibilità di divincolarsi dall’abbraccio plurisecolare di Mosca e acquistare una piena indipendenza.

La storica divisione tra est e ovest ha impedito all’Ucraina, un esteso paese di 45 milioni di abitanti, di avere una collocazione geopolitica definita. Parallelamente ai negoziati con Bruxelles, infatti Mosca ha lavorato per ricreare una sfera d’influenza euroasiatica (di cui l’unione doganale con Bielorussia e Kazakistan è un tassello) che comprenda anche l’Ucraina. Soprattutto dopo il ritorno alla presidenza di Vladimir Putin (nel maggio 2012, dopo la parentesi di Dmitri Medvedev) il Cremlino non ha mancato di esercitare tutta la propria influenza sul suo vicino: il valore storico-simbolico (la Rus’ di Kiev) ed economico dell’Ucraina (un mercato e una struttura industriale importante) la rendono un obiettivo geostrategico imprescindibile.

Il governo di Kiev negli ultimi anni si è trovato ad affrontare una difficile crisi economica e finanziaria: l’andamento del PIL è passato dal +7,4% del 2006 al -14,8% del 2009 (0,1% nel 2012). L’UE non ha potuto assicurare la quantità di aiuti economici richiesti dall’Ucraina durante le trattative; d’altro canto, tali aiuti sarebbero condizionati ad una serie di riforme del sistema politico e giudiziario che il governo ucraino non ha dimostrato di voler intraprendere. In questa trattativa ha potuto inserirsi facilmente la Russia: l’accordo siglato a dicembre (sconti sul gas e acquisto di titoli di stato) ha un valore di 15 miliardi di dollari. L’identica cifra che Kiev aveva già chiesto al Fondo monetario internazionale e che non era stata concessa per l’impossibilità di soddisfare le condizioni poste da Washington.

Il livello di intensità e violenza raggiunto dalle dimostrazioni hanno spinto i leader occidentali ad ipotizzare sanzioni contro il paese. Oltre ai ripetuti richiami al governo perché garantisca comunque la libertà di espressione e dissenso, il segretario di Stato americano John Kerry ha tenuto a Berlino un incontro con alcuni leader dell’opposizione.

Si è registrata poi una “offensiva” diplomatica, dell’Alto rappresentante UE per la politica estera, Catherine Ashton, che ha visitato Kiev due volte in poche settimane. Ciò ha causato la dura reazione di Vladimir Putin (“Che direste se il nostro ministro degli Esteri andasse in visita in Grecia facendo appelli antieuropei?”), anche se il presidente russo ha ribadito che tra Mosca e Kiev vi sono accordi puramente economici, che prescindono dalla composizione del governo e dal nome del presidente.

È difficile immaginare cosa potrà succedere nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Certamente le cause di quanto avvenuto da novembre ad oggi sono molto profonde e trovano radici in vari fattori, oltre alla storica divisione socio-culturale: le gravi difficoltà economiche e sociali del paese, che hanno portato all’esasperazione di vasti settori della popolazione; la debolezza della stessa opposizione, incapace di trovare un denominatore comune che vada oltre il sentimento anti-russo e la contrapposizione a Janukovyč; e infine il perdurare del potere economico degli oligarchi.

L’ombra di un’imminente guerra civile si allunga sempre di più sul paese, nonostante le recenti aperture (forse tardive) del presidente Janukovyč. L’azione diplomatica messa in campo da Stati Uniti e UE da una parte e Russia dall’altra (sebbene a Mosca interessi una stabilizzazione dell’area, soprattutto alla vigilia delle già delicate Olimpiadi invernali di Sochi) potrebbe non bastare: la condizione necessaria per una pacificazione sostenibile è a questo punto che il presidente e l’opposizione trovino un accordo per portare il paese a elezioni anticipate e concrete riforme politiche.