Sono molte le domande futili sulla fine di Osama bin Laden, ma poche quelle serie e importanti.
Dove sono le foto? Perché il DNA corrisponde solo al 99,9%? Che hanno fatto dello 0,01% mancante? Quanti erano gli elicotteri? È stato un errore buttarlo in mare: è stato ripescato da sommozzatori somali per imbalsamarlo. Bin Laden è vivo e si nasconde in Brasile nello stesso posto dove è Hitler dal maggio 1945. No, era già morto: quello di Abbottabad era un sosia. Comunque è una bufala perché non contava più niente. Il tutto alimentato dalle dichiarazioni ufficiali non perfettamente coincidenti e dalle rivelazioni di “esponenti dell’amministrazione che parlano sotto il vincolo dell’anonimato”.
Alcune informazioni che riceveremo saranno vere, altre manipolate, altre ancora tenute segrete (WikiLeaks permettendo). Prepariamoci a un’altra grande saga cospiratoria paragonabile all’assassinio di John F. Kennedy, a quelli di Enrico Mattei e di Aldo Moro, alla morte di Lady Diana e di Marilyn Monroe, allo sbarco sulla luna, alla strage di Ustica. E a quella delle stesse torri gemelle. Onestamente, lascerei il piacere agli appassionati del genere: vivono in un universo parallelo. Le persone sensate hanno interesse a spegnere la playstation. In questa vicenda ci sono però tre domande serie che vale la pena di esaminare.
La prima è di carattere etico o, se vogliamo, legale. Come conciliare l’istintiva soddisfazione per la scomparsa di un mostro con i dubbi sulla liceità della sua uccisione? Possibile che siamo tutti dei cinici pervertiti? Confessiamo intanto che se fosse morto di polmonite avremmo provato un po’ di delusione. Avremmo forse preferito che fosse arrestato, ovviamente dopo avergli letto i suoi diritti, portato in America, processato di fronte a una giuria (obiezione, Vostro Onore) e condannato, presumibilmente alla pena capitale. Come Adolf Eichmann, rapito in Argentina in violazione del diritto internazionale. Purtroppo non è così semplice. Quello di Eichmann fu il processo all’olocausto. Nessuno si sarebbe sognato di difenderlo, ma il fatto di esporlo all’opinione mondiale permise di rendere giustizia, ma anche di meglio comprendere quella che Hannah Arendt definì “la banalità del male”. Bin Laden non era Eichmann. Piaccia o no, una fetta dell’umanità, che comprende i nostri nemici e molti che noi vorremmo non lo diventassero, non lo considera necessariamente un mostro e il suo processo si sarebbe trasformato in una fantastica tribuna per la sua propaganda. Senza contare la tensione durante tutta la durata dei procedimenti. Poi, a esecuzione avvenuta, cosa fare del cadavere? Non facile, a quel punto, buttarlo in mare ed evitare che il luogo di sepoltura si trasformasse in meta di pellegrinaggio. Ne sarebbero stati felici i giornalisti e i giuristi, ma dubito che il bene pubblico ci avrebbe guadagnato. Invece, niente foto e niente processo: quante belle prime pagine perdute, che dolore rinunciare a dettagliate descrizioni della sua barba, del suo sguardo, delle sue parole e dei suoi silenzi, che delusione per avvocati in cerca di notorietà.
Non sapremo mai quali erano gli ordini dati al commando americano. Né sapremo cosa avrebbero dovuto fare i suoi componenti se, trovandoseli di fronte, bin Laden si fosse limitato ad alzare le mani come un ladruncolo colto sul fatto in un supermercato. Molte voci si sono levate per contestare la liceità di quanto è successo. Il Vaticano e l’ONU fanno il loro mestiere, ma fra tutte mi colpisce quella di Helmuth Schmidt. Nel 1976 un gruppo di terroristi tedeschi dirottò sull’aeroporto di Entebbe in Uganda un aereo con parecchi israeliani a bordo. Un commando del Mossad intervenne violando numerose leggi internazionali, liberò gli ostaggi, uccise tutti i terroristi e numerosi soldati ugandesi che li proteggevano. L’allora Cancelliere si unì al coro di chi approvò l’operazione. Probabilmente, anche in questo caso, l’unica soluzione è di considerare il tutto come un’operazione di guerra. Un po’ come se nel 1942 un commando britannico (almeno secondo i film, erano più bravi degli americani) si fosse introdotto a Berchtesgaden e avesse ammazzato Hitler. Non credo che molti avrebbero reclamato il processo.
Seconda questione importante: sembra che alcune informazioni fra quelle che hanno condotto all’uccisione di bin Laden sono state ottenute sotto tortura. È vero? E cosa implica? La cosa suscita un dibattito molto vivace, soprattutto in America. Esiste il pericolo che l’opinione pubblica ne sia influenzata e che l’amministrazione vacilli nel suo impegno a rinunciare a queste pratiche. I partigiani della tortura dovrebbero però poter dimostrare che quelle informazioni furono determinanti. Il che non è facile, per un’inchiesta durata più di due anni e che ha comportato una miriade di azioni che rientrano negli schemi del tutto tradizionali dello spionaggio internazionale.
Infine, una terza domanda che riguarda il problema del Pakistan. Fino a che punto sapevano i pachistani? Chi ha protetto bin Laden? Già durante la sua campagna elettorale, Barack Obama aveva sostenuto che il Pakistan, più ancora dell’Afganistan, è il principale pericolo. Quanto è successo conferma questa analisi. Il compito che attende ora l’amministrazione è straordinariamente difficile e comporta il rischio di ritrovarsi con una Somalia dotata di armi nucleari.
Nei suoi rapporti con il mondo musulmano l’America e l’occidente hanno commesso molti errori e anche alcuni crimini. Correggerli non sarà facile. Intanto, è bene evitare di cadere nella trappola di considerare Obama come una continuazione di Bush. Non vedo onestamente il legame con un presidente che aveva legalizzato la tortura e lanciato il paese in una guerra basata su una consapevole menzogna, che ha condotto alla guerra civile in Iraq, a un rafforzamento dell’Iran e a una grave frattura con l’Europa. Per il momento, non priviamoci della soddisfazione di fronte alla scomparsa del mostro e del piacere di vedere che un presidente accusato d’indecisione, come Kennedy al tempo della crisi dei missili, ha affrontato un “defining moment” e lo ha superato con successo.