Le turbolenze dell’economia globale e il rallentamento della domanda cinese hanno ridotto i tassi di crescita e, di riflesso, le aspettative delle economie latinoamericane dopo un periodo di “bonanza” molto prospero, caratterizzato in special modo dall’esportazione di materie prime verso il gigante asiatico. Nel complesso della regione, non si tratta di un calo drastico come quello del 2009 tale da determinare cifre negative (eccetto nel caso di Argentina, Brasile e Venezuela, e quest’ultima è comunque un caso sui generis), ma piuttosto di un’erosione che ormai si protrae da cinque anni, con un ulteriore peggioramento negli ultimi due.
A questo trend, più pronunciato nella subregione sudamericana che in quella centroamericana (maggiormente trainata dalla ripresa USA), i vari esecutivi nazionali cercano di far fronte con diversi strumenti di politica economica. Tra questi, oltre alla spesa pubblica che però inizia a temperarsi un po’ ovunque con l’introduzione di misure di austerità dopo anni di relativa largesse, l’apertura commerciale sembra una delle opzioni maggiormente gettonate. In tal senso, va notato che persino un paese al riguardo prudente come l’Ecuador guidato da Rafael Correa ha imboccato la strada degli accordi commerciali, aderendo – attraverso una negoziazione a parte, ora in via di ratifica – all’Accordo Multiparte con l’Unione Europea che Perù e Colombia avevano già sottoscritto in precedenza. Sono proprio Perù e Colombia, insieme a Messico e Cile, ad aver riposto maggior fiducia nelle possibilità della liberalizzazione del commercio e in altre misure di orientamento “mercatista”.
Questi paesi, oltre a mantenere accordi commerciali più o meno recenti con Stati Uniti ed Europa, si sono negli anni scorsi raccolti attorno all’Alleanza del Pacifico, un blocco tutto latinoamericano a cui potrebbero presto sommarsi anche Costa Rica e Panama, e il cui valore trascende la dimensione commerciale (peraltro notevole, giacché vengono eliminati i dazi per il 90% dei prodotti), includendo anche aspetti geopolitici. Sono infatti i paesi che con maggior ostinazione – e al di là delle distinzioni tra governi di centro-destra e centro-sinistra – si sono mantenuti lontani dai richiami radicali dell’ondata bolivariana. Del resto quella spinta si è nel frattempo molto affievolita, a causa della protratta crisi economica e politica venezuelana e del declino dell’attività dell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América) e anche dell’UNASUR (Unión de Naciones Suramericanas).
Un’altra cartina tornasole sull’esistenza di diversi modelli di sviluppo nel continente – e sull’attivismo di quelli di orientamento liberale – è rappresentata dall’adesione di tre paesi della dorsale pacifica (Perù, Cile e Messico) al TPP (TransPacific Partnership) – senza dimenticare che la Colombia ha già espresso il suo interesse ad aderirvi in un secondo momento. Questo accordo presenta sulla carta dei punti di possibile comunanza con il TTIP in via di negoziazione tra Stati Uniti e Unione Europea, e ha portata e contenuti notevoli. Il TPP non è infatti un semplice partenariato commerciale, ma un’associazione di ben 12 paesi che include regolazioni vincolanti su temi come proprietà intellettuale, normativa ambientale, diritti del lavoro e risoluzione di controversie economiche. Se le potenzialità sono importanti, ci sono però anche seri limiti per le economie e le società latinoamericane interessate.
Per cominciare è significativa la genesi del TPP, sorto come iniziativa commerciale tra Cile, Singapore, Nuova Zelanda e Brunei nel 2002, sottoscritta nel 2005 e in vigore tra questi paesi dal 2006. È soprattutto grazie all’interessamento statunitense che, a partire dal 2008, il TPP entra a far parte anche dell’agenda di Messico, Perù, Canada, Vietnam, Malesia, Giappone e Australia, dando vita nel 2010 a un round di negoziati per il suo allargamento. Da segnalare naturalmente l’assenza della Cina, la cui esclusione va compresa nel gioco delle schermaglie economico-commerciali che intercorrono con gli Stati Uniti e nel tentativo di questi ultimi di controarrestare l’influenza cinese nell’area del Pacifico. Tuttavia, non è da scartare l’ipotesi che la Cina si integri successivamente, come anche a Washington si è recentemente ventilato.
Il partenariato, siglato il 5 ottobre ad Atlanta, copre il 40% dell’economia mondiale ed è stato fortemente voluto da Barack Obama, come dimostrato dalla autorità fast-track concessa (seppure dopo varie incertezze) al presidente dal Congresso americano. Spetterà ora a ciascun paese ratificarlo: un compito che non mancherà di essere controverso nemmeno negli Stati Uniti, dove persino Hillary Clinton ne ha preso le distanze – più per motivi di contingenza elettorale che altro, dato che da segretario di Stato ne era stata un’entusiasta promotrice. Nelle parole dei suoi sostenitori, l’accordo non solo è destinato a stimolare le economie grazie alla riduzione delle tariffe doganali, ma comporterà una serie di normative virtuose a cui tutti i paesi dovranno aderire se non vorranno incorrere in sanzioni. Viene spesso ricordato a mo’ di esempio che il Vietnam sarà così costretto a permettere la creazione dei suoi primi sindacati indipendenti nella propria storia, e che il traffico di animali in via di estinzione subirà penalità commerciali.
Non mancano però le voci critiche. Il dubbio più classico getta ombre sull’asimmetria di molti dei paesi coinvolti rispetto a giganti economici come Stati Uniti e Giappone. Sebbene sia probabile che i volumi di esportazione dei prodotti primari in cui i paesi minori sono specializzati aumenteranno, l’apertura di queste economie rischia di mettere a repentaglio interi comparti – soprattutto nel settore agricolo – che non possono reggere la competizione di paesi storicamente più avanzati e che sussidiano i propri agricoltori (vedi gli Stati Uniti), causando così impatti negativi (o quantomeno nulli) sulla generazione di lavoro e sul benessere delle fasce della popolazione più vulnerabili.
C’è poi una perplessità più complessiva e di metodo: il fatto che, al pari di quanto succede con il TTIP, l’accordo trans-Pacifico sia stato negoziato segretamente e che il testo sia rimasto finora off-limits pone un’ ipoteca sulla “legittimità democratica” dell’accordo. L’esclusione della società civile dai negoziati e dal dibattito pubblico, accompagnato dal silenzio mediatico attorno alla questione, ha reso del tutto opaca la sua gestazione e rende giustificate le voci di coloro che accusano l’economia di svuotare le prerogative della politica. In questo senso, ogni discussione svolta attorno al tema è stata resa possibile solamente dalle filtrazioni di WikiLeaks, che a più riprese ha pubblicato estratti del testo, fino alla presunta versione finale del 5 ottobre.
Tra le molte disposizioni apprese da questi leaks, sembrano particolarmente controverse le normative sulla proprietà intellettuale (allungando il tempo delle patenti e allargando il concetto di ciò che è patentabile), la normativa sui diritti d’autore per cui i provider di internet dovranno incaricarsi di vigilare il web e segnalare ogni contenuto apparentemente coperto da copyright alle autorità competenti (con i rischi di vera censura), e l’accesso per le multinazionali ad arbitrati internazionali nel caso in cui il paese ospitante introduca leggi che presumibilmente danneggiano la reddività degli investimenti (riducendo così la sovranità nazionale in materie delicate).
Sono tutti temi che nei paesi latinoamericani non hanno ancora risvegliato un dibattito pubblico degno di tal nome, ma è possibile che ciò avvenga – sebbene per un periodo molto ridotto – in vista della necessaria ratifica parlamentare, anche se ci sarà ben poca possibilità di modificare alcunché, e la ratifica appare del resto scontata in tutti e tre i paesi. Se l’impatto commerciale sulle economie in questione è ancora tutto da valutare con una possibile – ma non certa – ricaduta positiva sulla crescita, è però molto probabile che questa crescita avvenga esacerbando le disuguaglianze per cui il continente è già tristemente noto. Una preoccupazione enfatizzata proprio dalle disposizioni riguardanti la proprietà intellettuale e le controversie giuridiche, le quali non sembrano essere esattamente disegnate per assistere le necessità di flessibilità di paesi in via di sviluppo o comunque in una fase delicata dei processi di crescita e modernizzazione.