Si è ormai diffusa, anche se tardivamente, la consapevolezza che lo Stato Islamico (ISIS) è una gravissima minaccia non solo a livello locale, e richiede una risposta collettiva. Nessuno si illude più che si possa fermare l’ISIS o addirittura smantellarlo senza piazzare boots on the ground, cioè con i soli bombardieri e droni; e, come ha detto Obama, sarà una lotta che richiederà anni. Ma al di là del riconoscimento della gravità della minaccia, non si delinea ancora una strategia immune da wishful thinking.
Innanzitutto non si vede chi dovrebbe inviare truppe per liberare Mosul e le altre roccaforti del Califfato. Gli americani stilano bilanci negativi sull’efficacia dell’azione antiguerriglia sperimentata contro i talebani. Gli europei (Italia compresa) rispondono alla sfida dell’ISIS offrendo materiale e servizi sussidiari ma non unità combattenti. I ricchi Stati del Golfo partecipano poco più che simbolicamente alla coalizione con alcuni cacciabombardieri, consentendo al Pentagono di risparmiare marginalmente sulle incursioni aeree, ma si tengono alla larga dal lavoro sporco della guerra terrestre.
Per non dire della Turchia, che sarebbe la meglio piazzata per un intervento con proprie truppe ma lo subordina a condizioni proibitive: a cominciare dalla creazione di una no-fly zone, la quale comporterebbe attacchi contro le batterie anti-aeree e i radar del governo siriano. Ankara vorrebbe trascinare gli alleati in una guerra contro il regime di Damasco: per il Presidente Recep Tayyip Erdoğan il principale nemico non è dunque il Califfo bensì il laico Presidente Bashar al-Assad. E inoltre i curdi iracheni e siriani è meglio che rimangano sulla difensiva: se vittoriosi incoraggerebbero i curdi di Anatolia a pretendere l’autonomia.
In linea di principio sembrerebbe ragionevole aspettarsi che siano lo stesso Iraq e i paesi della regione a fornire le unità combattenti, salvo ricevere aiuti militari e appoggio aereo dai membri della NATO. Ma va anche considerato che attaccare l’ISIS con truppe sciite significherebbe introdurre nel conflitto un elemento settario, facilmente sfruttabile dalla propaganda dei jihadisti. Se ad attaccare fossero invece soldati sunniti, ad esempio sauditi, verrebbero visti dall’avversario come traditori, e trattati di conseguenza; con il doppio rischio che fuggano terrorizzati o addirittura che passino al nemico. È a questo fine che l’ISIS commette e pubblicizza atrocità contro i vinti (e non solo contro gli ostaggi occidentali) in violazione delle più elementari regole di civiltà.
Il problema dei boots on the ground non sembra dunque avere soluzione, a meno che non si riesca (con l’aiuto dei sauditi) a mobilitare nuovamente le tribù sunnite contro gli estremisti, o a suscitare nell’insieme della popolazione irachena non ancora soggiogata una forte reazione di rigetto.
Ma almeno sgombriamo il campo dall’illusione che la proxy war, la guerra delegata, possa essere caricata sulle spalle dei curdi: i peshmerga proteggeranno le loro case, i loro territori, i fratelli di oltreconfine in Siria certamente non tutto l’Iraq. Vedremo se riusciranno a salvare Kobane. In caso contrario sarà stato un errore attribuire a quella cittadina siriana un così forte valore simbolico. Giusto aver concentrato i bombardamenti aerei sugli assedianti; ma una volta che questi sono penetrati in alcuni quartieri in cui vivono ancora dei civili l’aviazione può far poco. Salvo che ci si voglia mettere sullo stesso piano del vituperato Assad.
Un’altra pervicace illusione è che la guerra per procura contro lo Stato Islamico possa essere affidata ai ribelli “moderati”: benché si sia visto come sono stati emarginati dagli alleati jihadisti, si chiederebbe loro di combattere, e vincere, su due fronti. Il Presidente Obama non ha ancora avuto il coraggio di superare questa contraddizione. È anzi di pochi giorni fa l’annuncio che Washington rafforzerà la propria strategia anti-ISIS mediante un programma di addestramento di insorti siriani “buoni”.
Un terzo mito da sfatare è quello delle provvidenziali lotte intestine fra movimenti jihadisti. Si è molto capitalizzato su sporadici scontri avvenuti fra guerriglieri di Al-Nusra (fedeli a Ayman al-Zawahiri, successore di Osama Bin Laden) e i qaedisti dissidenti capeggiati da Abu Bakr al-Baghdadi. Ma simili attriti si sono spesso verificati nelle lotte partigiane del passato (vedasi il caso della Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale), senza che l’esercito avversario ne ricavasse grande sollievo. Al-Nusra combatte la stessa battaglia dell’ISIS, né si differenzia per metodi più blandi. E una volta raggiunto l’obiettivo di instaurare il Califfato, non è pensabile che il primo movimento ne lasci il monopolio al secondo. Molto più verosimile è che finiscano per confluire, e insieme eliminino le formazioni moderate.
Se dunque la coalizione internazionale non dispone delle forze militari necessarie per scalzare l’ISIS dai territori conquistati, prima che il suo regime si consolidi nel Nord dell’Iraq e della Siria (il roll-back che all’inizio dell’estate sembrava valesse la pena tentare), vanno ricalibrati gli obiettivi. Il degrade and destroy di Obama significa una guerra di logoramento – proprio, oltre che dell’avversario – con la distruzione di quest’ultimo proiettata in un futuro lontano e incerto. Significa dunque sostenere costi ingenti e comunque, ad oggi, imprevedibili.
Più realistico è allora ripiegare sul concetto di containment: evitare lo spill-over verso la Giordania, arrestare quello già in atto in Libano, impedire l’avanzata di ISIS verso Baghdad e la parte ancora libera dell’Iraq. Sin qui tutti d’accordo.
E la Siria? Se ci si rende conto che sarebbe folle puntare su una vittoria dei ribelli “buoni” su due fronti – contro Assad e contro l’ISIS – e che la vera minaccia è quest’ultimo, se ne devono trarre le logiche conclusioni: bisogna che le grandi potenze, con il coinvolgimento delle Nazioni Unite e di tutti i paesi della regione, promuovano un cessate il fuoco e un processo di riconciliazione nazionale (preferibilmente con dimissioni di Assad, ma senza farne una pregiudiziale).
Ed ecco la buona notizia: il nuovo Inviato Speciale delle Nazioni Unite (ed ex Sottosegretario alla Farnesina), Staffan de Mistura ha ora proposto al regime di Damasco di concordare la cessazione delle operazioni militari e l’avvio di una normalizzazione della vita in singole zone, a cominciare dalla martoriata città di Aleppo, con l’obiettivo di pervenire gradualmente alla fine della guerra civile.
La bad news è che la più recente versione della strategia anti-ISIS di Washington ribadisce invece, accanto all’addestramento di un nuovo esercito siriano filo-occidentale e filo-saudita, l’obiettivo della cacciata di Assad (che è poi il principale obiettivo dello stesso ISIS). C’è solo da augurarsi che si tratti di lip service verso i falchi nel Congresso (non solo Repubblicani) e verso il recalcitrante alleato turco, nell’attesa che maturino le condizioni per la svolta imposta dalla minaccia jihadista.
Proporre una linea “pragmatica” nei confronti del regime di Damasco, per concentrare tutte le energie nell’arginare l’avanzata dell’ISIS, non equivale a propugnare una alleanza con gli Alauiti e con Hezbollah in quella che potrebbe essere percepita come una crociata anti-sunnita; si tratta invece di promuovere un compromesso storico fra le componenti sciite della regione e i sunniti non jihadisti, al fine di ricostruire in Siria, come nell’Iraq post-Maliki (ad eccezione dei territori saldamente controllati dall’ISIS), uno Stato non settario. Ciò che non era riuscito agli inviati speciali Kofi Annan e Lakhdar Brahimi potrebbe oggi essere riproposto alle due parti, di fronte al pericolo del totalitarismo jihadista, ed essere riconosciuto come il male minore.
Qualora entrambi gli Stati, con generosa assistenza internazionale, riuscissero a consolidarsi – sia pure su una porzione del loro territorio -, a riportare a casa una buona parte dei rifugiati e sfollati, e ad acquisire coesione e credibilità, potrebbero forse un giorno andare oltre: muovere alla riconquista dei territori controllati dall’ISIS e anche di hearts and minds delle popolazioni da esso dominate. Una prospettiva di non breve periodo, e forse anche alquanto utopistica; ma esistono più realistiche alternative?