Le variabili-chiave
La prima variabile da tenere in considerazione è l’efficacia di un eventuale attacco militare. Gli impianti nucleari iraniani sono molteplici e posti in prossimità di centri urbani. In caso d’attacco saranno inevitabili migliaia di vittime civili. Inoltre, i siti sono protetti in caverne e bunker profondi. E’ probabile che qualcuno sia sfuggito all’intelligence e che non possano essere tutti “marcati” da forze speciali infiltratesi in prossimità degli impianti – procedura indispensabile a garantire l’assoluta precisione dei bombardamenti. E’ quindi dubbio che i bombardamenti possano bloccare il programma nucleare, e potrebbero non riuscire neppure a ritardarlo per un tempo significativo. D’altronde, non esiste in USA un senso di urgenza rispetto ad un attacco contro l’Iran. Una cosa è la disponibilità dell’uranio arricchito necessario per una bomba rudimentale; tutt’altra è la sua militarizzazione per collocare l’ordigno su di un missile, che può richiedere anni e richiede il possesso di tecnologie molto avanzate.
E’anche vero, tuttavia, che gli americani stanno sviluppando da tempo la capacità di attaccare obiettivi molto protetti. Alla bomba termobarica GBU-43/B (fatta esplodere nel 2007), stanno aggiungendo la “Massive Ordnance Penetrator”, sganciabile dai B 52 e dai B 2, il cui programma è stato accelerato nella scorsa estate. I suoi primi dieci esemplari dovrebbero essere disponibili in questi mesi. E’ in grado di penetrare fino ad una profondità di 61 metri, grazie alle sue 2,5 tonnellate di tritonal – miscela di tritolo e di polvere di alluminio – con una capacità di penetrazione superiore del 20% a quella del solo tritolo. Ad essa si è certamente riferito il 10 gennaio il generale Petraeus, capo del CENTCOM, quando ha dichiarato che è stato preparato un piano per la distruzione degli impianti nucleari dell’Iran e che esso potrà avere successo “purchè condotto con mezzi idonei”.
Un secondo interrogativo riguarda la capacità di contrastare le reazioni iraniane. L’Iran potrebbe destabilizzare l’Iraq, provocandovi una guerra civile, oppure far effettuare attentati terroristici dall’Hezbollah in tutto il mondo, oppure localmente dagli sciiti del Golfo e dello Yemen. Tali reazioni sono comunque del tutto secondarie rispetto a quella più pericolosa, cioè al blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transitano oltre 15 milioni di barili di petrolio al giorno. La sua chiusura avrebbe conseguenze disastrose per l’economia mondiale, perchè l’offerta non soddisferebbe la domanda. Non solo i prezzi del petrolio aumenterebbero, ma anche quelli del gas naturale (visto che il Qatar ne è uno dei maggiori produttori mondiali e utilizza quella via di transito). Il blocco di Hormuz potrebbe essere realizzato dall’Iran con mine marine e con missili antinave lanciati da terra o da imbarcazioni veloci. L’Iran dispone di moderne mine ad influenza, più difficili da neutralizzare di quelle a contatto, poiché richiedono diversi passaggi dei dragamine prima di esplodere.
Un terzo problema riguarda le reazioni della comunità internazionale, in particolare della Russia. Mosca ha finora rifiutato di approvare le nuove sanzioni che gli USA vorrebbero imporre all’Iran. Le ragioni possono consistere nell’interesse russo a mantenere elevati i prezzi del petrolio e del gas. Un accordo fra l’Iran e l’Occidente sarebbe disastroso per la Russia, immettendo sul mercato il gas di cui l’Iran possiede le seconde riserve al mondo (peraltro, con un costo di estrazione minore di quello del gas russo). Inoltre, il gas iraniano potrebbe essere trasportato in Europa – tramite la Turchia – con gasdotti terrestri; quindi a costi inferiori a quelli dei gasdotti sottomarini e soprattutto del gas liquido, a cui devono ricorrere i russi. L’arma petrolifera in mano al Cremlino verrebbe così spuntata. Mosca tenta poi di prolungare l’impegno USA in Medio Oriente, in modo da ripristinare la propria influenza sull’“estero vicino”. Non si tratta solo di nostalgia dell’impero, ma di necessità geopolitica: la Russia, priva di difese naturali, deve ricercare la propria sicurezza con una “fascia cuscinetto” profonda. Non ha molto tempo a disposizione, non solo perché prima o poi Washington diminuirà il suo impegno in Medio Oriente, ma anche per la propria terribile crisi demografica che la costringerà fra uno o due decenni a ridimensionare le sue ambizioni di grande potenza globale. Mosca non ha dunque interesse ad un conflitto con l’Iran, che sarebbe comunque vinto dagli USA, e cerca invece di sfruttare la perdita di credibilità americana dovuta all’indecisione di Obama su come imporre all’Iran il rispetto dei termini anti-proliferazione.
L’intreccio tra Israele e Washington
Israele, messo con le spalle al muro, potrebbe decidere di accettare i rischi di una scarsa efficacia dell’attacco e di una forte reazione regionale anti-israeliana, bombardando comunque l’Iran con i suoi cacciabombardieri – dotati di bombe di penetrazione della generazione precedente, capaci di distruggere bunker in roccia o cemento armato fino a una decina di metri di profondità. Potrebbe anche colpire l’Iran con i missili cruise a bordo dei suoi tre sommergibili, che fanno parte della sua forza di dissuasione nucleare. Il problema è che essi hanno comunque un carico utile troppo ridotto per essere efficaci contro bunker corazzati. Ma, soprattutto, Israele non potrebbe contrastare il blocco di Hormuz. Solo gli USA dispongono delle forze necessarie per impedirlo, o limitarlo a pochi giorni. Le loro capacità di sminamento sono state rafforzate dall’introduzione in servizio di UUV (Underwater Unmanned Vehicle), specializzati nello sminamento. Inoltre, sono in possesso delle capacità non solo aeronavali, ma anche di quelle anfibie necessarie per eliminare le forze iraniane nell’area di Hormuz ed evitare attacchi missilistici alle petroliere. E’ quindi probabile che un bombardamento degli impianti nucleari venga preceduto da un attacco sia ai mezzi di minamento iraniani, sia alle installazioni militari prossime allo Stretto di Hormuz. Ciò richiederà il rinforzo della 5^ Flotta con 3-4 gruppi portaerei e con due tre Brigate di Marines. Due gruppi portaerei e mezza Brigata di Marines sono già in afflusso per l’emergenza Yemen. L’attacco americano potrebbe essere appoggiato solo marginalmente dai guerriglieri in territorio iraniano – soprattutto baluci – che già si oppongono al governo di Teheran. Ma questo potrebbe destabilizzare ulteriormente il Pakistan ed influire anche sulla stabilizzazione dell’Afghanistan, dove i baluci sostengono i talebani. Sarebbe ancora più problematico l’utilizzo della minoranza curda in Iran, visto che questo provocherebbe un riavvicinamento della Turchia all’Iran.
Il punto centrale rimane che, in caso di attacco israeliano, gli USA saranno costretti ad intervenire. Il “balletto” in corso da anni sul nucleare iraniano è quindi duplice. Da un lato l’Iran, confidando anche sul supporto russo e sulle divisioni europee, guadagna tempo con l’abilità negoziale di una tradizione commerciale come quella persiana. Dall’altro lato, Israele cerca di forzare la mano a Washington. Intanto, parlamentari ed opinione pubblica americana si stanno spazientendo, con la lobby ebraica in prima fila ma anche quella dei paesi dell’est-Europa, che temono un appeasement con la Russia. In tutto ciò, nonostante la sua perdurante popolarità presso le opinioni pubbliche europee, Obama non riesce ad ottenere il pieno sostegno dei suoi alleati.
Gli interessi americani, dietro le apparenze
Il presidente americano cerca chiaramente, a sua volta, di guadagnare tempo, ma in apparenza non si capisce a quale scopo. In parte sembra cullarsi nell’illusione che i “duri”, alla Ahmadinejad, possano essere sostituiti in Iran dai “moderati”, alla Rafsanjani, e che la “rivoluzione verde” possa avere successo. E’ appunto un’illusione, o forse un inganno deliberato per ritardare il momento della decisione. Obama sa certamente che proprio Rafsanjani aveva affermato che per la distruzione di Israele sarebbe stata sufficiente una sola arma nucleare.
Se guardiamo poi all’ipotesi di ulteriori sanzioni, la realtà è che devono ancora essere inventate sanzioni che colpiscano i governi e non la popolazione. Il regime iraniano ne uscirebbe rafforzato, anche perché la massa della patriottica popolazione iraniana ritiene indispensabile il programma nucleare ed è contraria ad ogni ingerenza straniera, specie occidentale. Tutto questo rende le scelte di Obama molto difficili. Ma forse ciò è proprio quello che il Presidente vuole, in attesa che la bomba nucleare iraniana renda impraticabile ogni attacco. Forse, come probabilmente Bush, Obama ritiene che il programma nucleare iraniano non solo sia accettabile – anche perché la cura potrebbe essere peggiore della malattia – ma addirittura conveniente per gli interessi americani. Pur non potendolo dichiarare, l’attuale amministrazione sembra in effetti seguire la stessa politica di quella precedente. G.W Bush aveva fatto pubblicare nel dicembre 2007 il documento noto come National Intelligence Estimate, in cui si affermava che l’Iran aveva cessato la produzione di armi nucleari nel 2003, cioè dopo l’attacco americano all’Iraq. Molti avevano ritenuto allora che tale affermazione equivalesse all’impegno USA di non attaccare l’Iran, come ricompensa della sua cooperazione nella stabilizzazione dell’Iraq. Quasi certamente c’era dell’altro: gli Stati Uniti sono stati sempre abbastanza indifferenti rispetto all’arma nucleare iraniana. Questa sarebbe pericolosa solo se Washington volesse attaccare l’Iran: ma non ha alcuna intenzione di farlo. Gli interessi americani sono meglio perseguibili con la dissuasione ed il contenimento, premesse di futuri accordi con Teheran o della continuazione di una cooperazione segreta, di cui un esempio fu l’Iran-Contras Gate negli anni Ottanta. In questa visione, le minacce di Ahmadinejad di nuclearizzare Israele sarebbero semplice retorica, poiché i dirigenti iraniani sanno che in quello scenario la rappresaglia nucleare sarebbe garantita – da parte israeliana e probabilmente anche americana. Il nucleare può semmai essere utilizzato come arma negoziale per ottenere vantaggi geopolitici nel Golfo.
Cosa ancor più importante, una classe dirigente complessivamente pragmatica come quella di Teheran sa fare i propri calcoli, comprendendo anche quasi siano gli interessi di fondo degli Stati Uniti.