international analysis and commentary

Salafiti e jihadisti nei campi profughi palestinesi: la sfida all’OLP

555

I profughi palestinesi, ovvero coloro che si considerano i discendenti dei palestinesi provenienti da località conquistate o assegnate allo Stato di Israele nel 1948, ammontano oggi a circa cinque milioni di persone sparse tra Cisgiordania, Striscia di Gaza e Paesi arabi limitrofi (Siria, Giordania e Libano in primis). Un numero non indifferente, se si conta che il totale della popolazione palestinese complessivamente residente nei Territori Occupati e nella Striscia è pari a circa quattro milioni e mezzo. Numeri che da soli sottolineano quanto problematico sia demandare la “questione dei rifugiati” ad un accordo definitivo differito nel tempo, nell’ambito degli attuali negoziati in corso tra Israele e l’Autorità palestinese che molti considerano in una situazione di stallo con poche vie d’uscita.

Oltre a ragioni demografiche, però, vi sono altri motivi per cui i riflettori della comunità internazionale dovrebbero tornare ad accendersi sulla realtà dei campi profughi. Il primo motivo è che i campi presenti in Siria sono attualmente diventati parte attiva della guerra civile che vi imperversa; intanto i profughi che hanno scelto la fuga sono andati ad ingrossare la popolazione palestinese in Libano, alterando ulteriormente i fragili equilibri interetnici del Paese dei cedri. Il secondo motivo è che, a partire dal 2003, sono state documentate crescenti infiltrazioni di gruppi integralisti salafiti nei campi palestinesi, sancendo di fatto la creazione di gruppi politici e militari indipendenti dall’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina).

L’ideologia salafita non è nuova nella regione: essa fece il suo ingresso nei campi profughi palestinesi nel 1980, dopo il fallimento delle ideologie arabe nazional-socialiste di ispirazione baathista o nasseriana. Negli stessi anni in cui da una costola dei Fratelli musulmani in Palestina nasceva il gruppo nazional-islamista di Hamas (ufficialmente nel 1987), il primo gruppo militante salafita palestinese veniva fondato nel sud del Libano (nel campo-profughi di Ayn al-Hilwa, nei dintorni di Tiro, oltre la zona controllata da Hezbollah), con il nome di Usbat al-Ansar. Ayn al-Hilwa era stato “il campo-base” dell’OLP, per essere abbandonato da Fatah nel 1982 dopo la battaglia di Beirut. All’inizio degli anni 2000 vi era già una forte influenza di Usbat al-Ansar, che aveva provati collegamenti con Al-Qaeda in Iraq. Le strade del campo di Ain el-Hilweh sono tutt’oggi piene di bandiere che inneggiano ad Al-Qaeda nel Levante, l’organizzazione jihadista operativa in Siria e in Iraq. In un luogo dove i rifugiati sono completamente disillusi sulla propria possibilità sia di diventare a pieno titolo cittadini libanesi che di fare ritorno nei Territori palestinesi (e la disoccupazione colpisce quasi l’80% della popolazione), l’attrazione delle ideologie radicali è fortissima.  Dal 2011, lo è anche la tentazione dei giovani di arruolarsi tra le fila dei gruppi ribelli attivi nella vicina Siria.

Altri gruppi salafiti presenti nei campi profughi palestinesi in Libano si sono resi responsabili di attentati contro civili, tanto nel nord d’Israele che all’interno del Libano. Tra questi, la brigata Fath al-Islam, che ha un forte radicamento nei campi del nord del Libano – in particolare in quello di Nahr el-Bared, sito nelle vicinanze di Tripoli – divenne nota ai media internazionali nel 2007, quando per mesi ingaggiò battaglia nel campo contro l’esercito libanese. Il gruppo conta tra le sue fila molti jihadisti stranieri (pachistani, iracheni, siriani e afghani), ma gode anche della protezione della popolazione palestinese, nonostante si sia reso responsabile di attentati in Libano – come quello alla roccaforte della famiglia falangista Gemayel (Ain Alek) nel 2007 – trascinando i palestinesi nella faida interconfessionale che prosegue a intermittenza nel paese.

Più recentemente, nel febbraio 2014, i campi profughi palestinesi sono tornati alla ribalta per un attentato suicida alla periferia sud di Beirut contro un centro culturale iraniano: responsabili ne sarebbero state le Brigate Abdullah Azzam, il cui comandante militare è stato per un breve periodo – dopo l’arresto e la successiva morte del leader saudita Majid Al-Majid nel gennaio 2014 – Naim Abbas, un palestinese e membro di spicco del fronte ISIS-al Nusra impegnato nel jihad in Siria e in Iraq, anch’egli arrestato a Beirut appena un mese dopo (febbraio 2014). La sua vicenda biografica è in parte rappresentativa della storia dei campi profughi e del vuoto seguito all’abbandono dei campi da parte dell’OLP: cresciuto negli anni Ottanta nel campo profughi di Ain al-Hilweh, Abbas entrò a far parte prima di Fatah al-Islam (1986) e, poi, circa sei anni dopo, della Jihad islamica. Dopo il 2002 schierò ancora più radicali ed entrò in contatto con al-Zarqawi e Al-Qaeda in Iraq, completando lì il suo addestramento paramilitare. Infine, nel dicembre 2013, incontrò l’emiro del Fronte al-Nusra, Abu Malek, con il quale concordò una serie di attentati suicidi, dei quali alcuni realizzati con successo (nel gennaio e febbraio 2014), a danno di strutture di Hezbollah e della sua TV privata al-Manar.

È importante osservare come il filo rosso della vita di Naim Abbas sia stato emanciparsi gradualmente dalla causa nazionale palestinese per abbracciare quella più “universale” e panislamica di Al-Qaeda nel Levante: una traiettoria che suggerisce come il passaggio da una causa territoriale circoscritta ad una più ideologica ed estesa non solo è possibile, ma potrebbe essere frequente, nell’universo dei gruppi armati jihadisti. Inoltre, il provato sostegno di parte della popolazione dei campi profughi al gruppo dello Stato islamico d’Iraq di Al-Baghdadi, scissionista da Al-Qaeda, pone l’interrogativo di quale sia la priorità dei gruppi salafiti palestinesi in Libano: ovvero, se il jihad contro l’Iran e gli sciiti si stia gradualmente sostituendo a quello condotto contro gli Stati Uniti e l’Occidente.

In ogni caso, è certo che in Libano l’animosità contro i Palestinesi stia montando, soprattutto quando questi si rendono direttamente colpevoli di attentati suicidi a danni di Hezbollah, come avvenuto nei recenti episodi di Bir Hassan e di Hermel nel febbraio 2014, entrambi perpetrati da palestinesi provenienti dalla città libanese meridionale di Al-Baysarieh.

Se la situazione in Libano è esplosiva, è forte anche la tensione nei campi profughi dei Paesi confinanti. Nel campo siriano di Yarmouk, dove la presenza di Hamas era più forte e ben tollerata dal regime, hanno avuto luogo numerosi episodi di scontri tra ribelli e forze di sicurezza siriane: i palestinesi sono ormai parte attiva della guerra civile nonostante l’iniziale tentativo di rimanere neutrali, soprattutto dopo l’attacco del campo da parte dell’esercito siriano nel dicembre 2012, definito dal primo ministro Ismael Haniyeh una “seconda nakba.” Tuttavia, mentre alcune decine di palestinesi provenienti dalla striscia di Gaza e da Israele sono andati ad ingrossare le fila dei ribelli, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), guidato da Ahmed Jibril, si è allineato apertamente con il regime Assad – fino a scontrarsi con le brigate rivoluzionarie nello stesso campo di Yarmouk. Una battaglia giocatasi anche tra palestinesi schierati su fronti contrapposti, con il rischio non solo di pregiudicare la tenuta dell’unità nazionale palestinese, ma anche di scavalcare definitivamente l’autorità dell’OLP nei campi.

In Giordania, poi, i circa due milioni di rifugiati palestinesi sono una forza politica e sociale di primo piano negli equilibri politici del Paese. Dal 2008, però, parte di quegli stessi rifugiati che, almeno dal Settembre Nero (1970) avevano fatto di tutto per integrarsi nel Paese e non inserirsi nel confronto locale tra monarchia e Fratelli musulmani, hanno cominciato ad essere oggetto di propaganda jihadista. Il primo caso conclamato risale al 2008, quando un giovane palestinese del campo di Baqaa, il più grande di tutta la Giordania, uccise quattro libanesi ad Amman prima di suicidarsi. Dopo l’attacco fu compiuta una retata che portò alla luce una rete jihadista di ispirazione salafita facente capo ad un commando di dodici membri, tutti di origini palestinesi. Il campo di Irbid, a nord della capitale Amman ed al confine con la Siria, sembra oggi essere la base logistica per jihadisti palestinesi che puntano ad entrare in azione in Israele, Libano, Iraq o Siria.

In conclusione, occorre notare che complessivamente i palestinesi non contribuiscono con grandi numeri alle organizzazioni militanti salafite attive nel Mashrek, ma che i campi profughi costituiscono l’anello più debole della catena di comando dell’OLP e pongono un problema di leadership e unità nazionale tanto ad Hamas che per Al-Fatah. Innanzitutto, sono geograficamente lontani dai rispettivi centri di potere e quindi difficili da controllare; in secondo luogo, essi subiscono, più intensamente dei Palestinesi dei Territori occupati o di Gaza, l’influenza delle ideologie panislamiche radicali e le ripercussioni dei drammatici eventi politici che scuotono la regione.

Infine, di fronte ad un malcontento palestinese generalizzato nei confronti della propria leadership e il palese stallo della democrazia in Palestina, i giovani guardano sempre di più a forme di partecipazione politica diretta, quale appunto l’adesione a gruppi jihadisti paramilitari. Essa non prevede una lunga gavetta come nei partiti tradizionali e non necessita di alcuna educazione politica, ma richiede solo la sottoscrizione di principi e slogan molto generici e di immediata comprensione. Le stesse operazioni che questi gruppi conducono – incendi di internet café e altri luoghi reputati immorali, proclami su internet, azioni di guerra in Siria, emissione di fatwe o campagne anti-sciite – sono tutte attività con scopi definiti, circoscritti e immediati. Così, seppure si tratti di un fenomeno ancora molto limitato, è prevedibile che nei campi-profughi l’adesione a tali gruppi crescerà, almeno fintanto che la vita partitica e democratica palestinese rimarrà arenata sullo scontro Hamas-Fatah e i negoziati segreti con Israele non contempleranno uno scenario sostenibile anche per il futuro dei campi.