international analysis and commentary

Richard Holbrooke: i due tempi della diplomazia americana

275

Bulldozer della diplomazia e architetto di Dayton. Così fino alla fine è stato, e verrà, ricordato Richard Holbrooke. Malgrado il suo infaticabile impegno su numerosi altri dossier della politica estera americana – in particolare la questione Af-Pak negli ultimi due anni.

La personalità e popolarità di Holbrooke vanno inserite nel contesto complessivo della politica estera americana degli ultimi due decenni: è stato un rappresentante di quell’unica potenza/superpotenza che negli ultimi settant’anni di storia mondiale è stata in grado di produrre e dare rilievo storico a figure diplomatiche, e non solo politiche. E ciò soprattutto per il ruolo unico di agenda setter che a partire dal secondo dopoguerra gli Stati Uniti hanno ricoperto. Holbrooke è stato sul piano dell’azione e dell’operatività negoziale quello che sessant’anni prima George Kennan era stato sul piano del pensiero e della strategia. Kennan – l’autore del più famoso articolo mai pubblicato su Foreign Affairs, siglato “Mister X” – fu il teorico della strategia del “contenimento”; Holbrooke è stato diplomatico sul terreno, uomo d’azione nei teatri di crisi, dal Vietnam, alla Bosnia, al Kosovo, all’Afghanistan.  Kennan e Holbrooke sono esempi diversi ma complementari del binomio ”pensiero-azione” della diplomazia americana, della sua unicità.   

La parabola personale di Holbrooke coincide anche con quella di uno dei più difficili passaggi culturali e politici della diplomazia americana: dalla fase unipolare dell’immediato post-guerra fredda (in cui gli USA riuscivano ad essere decisivi per la soluzione delle crisi internazionali) alla fase attuale, post-unipolare (in cui essi restano indispensabili ma non risultano più decisivi). Balcani e Afghanistan sono lo specchio di queste due diverse fasi. Certo, le crisi balcaniche degli anni Novanta e l’Af-Pak di oggi non sono, per fattori locali e complessità, paragonabili. Ma resta la differenza nella capacità americana di esercitare un’influenza diretta: appena quindici anni fa gli Stati Uniti riuscirono a rinchiudere in una loro base militare le parti di un conflitto per alcune settimane per “costringerle” a trovare la pace; oggi, malgrado i prolungati ed enormi sforzi militari, diplomatici ed economici, non riescono ancora a venire a capo del puzzle afghano. Come indicano proprio le ultime parole di Holbrooke al chirurgo pakistano che l’ha operato poco prima della morte: “fermate quella guerra in Afghanistan”.

Holbrooke, dunque, come rappresentante delle due fasi della diplomazia americana, quella unipolare e quella post-unipolare, anche nei metodi. Brusco e bulldozer con gli stessi alleati europei (malgrado il suo penchant tedesco) negli anni Novanta, fino al punto di creare risentimenti in diverse diplomazie europee; gentile, inclusivo e multilateralista nella sua gestione di Af-Pak, dovendo prendere atto che gli USA non possono farcela da soli e facendo di necessità virtù nel rapporto con alleati e partner, europei e non. Proprio nel saper adattare la sua personalità e i metodi diplomatici alla nuova fase della politica estera americana Holbrooke ha dimostrato di non essere solo un bulldozer, ma invece un protagonista intelligente e sofisticato della politica internazionale dei nostri tempi.