international analysis and commentary

Questioni di metodo

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Habemus Olissiponam, Lisbona. Dopo otto anni di negoziati, dopo referendum falliti e rigiocati, è entrato in vigore il Trattato che mette la parola fine alla riforma delle istituzioni europee. Almeno per un certo periodo. Caduti gli ultimi alibi, conteranno le scelte politiche.

L’Europa sarà in grado di competere nel mondo globale? Una domanda come questa, che è poi la domanda che ci facciamo da anni, presuppone che gli Stati nazionali, la Commissione europea, il Parlamento di Strasburgo e la Banca centrale si muovano verso gli stessi obiettivi. Il problema è che non è affatto scontato.

Negli ultimi anni, infatti, la dinamica europea ha vissuto una specie di scissione: le istituzioni comuni sono state rafforzate, inclusi i poteri del Parlamento europeo; le politiche si sono in parte “ri-nazionalizzate”. Varando la nuova Commissione, alcuni giorni fa, José Manuel Barroso ha dichiarato, con una specie di scatto d’orgoglio: “Alla fine decido io”. Cosa vera, in linea di principio (è il Presidente della Commissione a distribuire le cariche); ma falsa se riferita alle tendenze di fondo. Gli equilibri fra il braccio inter-governativo dell’Ue, il Consiglio europeo, e la sua gamba comunitaria, la Commissione, si sono spostati verso i governi nazionali. Non solo: anche i paesi tradizionalmente favorevoli all’integrazione comunitaria, sono ormai “sovranisti”. Il caso più rilevante è la Germania, che sembra diventata una seconda Francia. Mentre ci si attende che la Gran Bretagna, in caso di successo conservatore alle prossime elezioni politiche, ricominci una battaglia attiva per “difendersi” dall’Europa – il che significa contro Bruxelles.

L’Europa è un’Unione di Stati nazionali. Che hanno deciso di cooperare abbattendo le barriere commerciali ( il mercato interno) e perfino di condividere parte della sovranità tradizionale (l’euro). Ma che non hanno deciso di auto-elidersi – giusto o sbagliato che sia. E continuano infatti a competere per l’influenza. Con una conseguenza precisa: l’Europa, qualunque cosa si dica, è un’organizzazione gerarchica. Alcuni paesi contano più degli altri.

Tutti lo sanno, naturalmente; ma nessuno lo dice. Perché la dinamica europea continua a fondarsi su equilibri delicati – il rapporto Grandi/Piccoli; la relazione Vecchi/Nuovi membri; il bilanciamento fra Europa nordica ed Europa mediterranea, la ricerca del consenso. Tutti quegli ingredienti, insomma, che hanno reso possibile l’Europa che abbiamo costruito fino ad oggi – certamente un enorme progresso rispetto alla situazione del secolo scorso. Ma che rendono difficile l’Europa di cui avremmo bisogno per domani.

Prendiamo il caso delle nomine introdotte dal Trattato di Lisbona. E’ stato scritto da molti che le scelte fatte rispecchiano requisiti importanti: la capacità di creare consenso, l’esperienza di “insiders” provati e così via. Siamo proprio sicuri che il punto sia sempre questo? Il problema, a me pare, non è di chiedere a un ex premier del Belgio, per bravo che sia, di mettere d’accordo i Grandi;  il problema è che i Grandi decidano che l’Europa ha effettivamente bisogno di essere guidata, con le responsabilità politiche che ne conseguono. Difficile? Certo, ma allora non fingiamo di credere che la presidenza stabile del Consiglio europeo sia un grande progresso.

Esiste anche un fondamentale problema di metodo. Le nomine recenti sono state il risultato di un gioco di “scambio” sulle cariche europee più rilevanti di qui al 2011. In questo gioco, Francia e Germania hanno riservato a se stesse o prenotato (a porte chiuse) ciò che considerano prioritario: il controllo del mercato interno e dei servizi finanziari per Parigi (con Michel Barnier alla Commissione); la politica energetica per Berlino, che intanto guarda alla presidenza (nel 2011) della Banca centrale europea. Mentre la Gran Bretagna, in attesa di David Cameron, è stata dirottata sulla gestione della politica estera: scelta che rispecchia il peso oggettivo di Londra in questo settore e si spera lo riduca altrove.

Non così male, si dirà. Se non fosse, aggiungerei io, che il Trattato di Lisbona ambiva a produrre qualcosa di nuovo. Il risultato è invece quello tradizionale: meccanismi opachi, non formalizzati e certo non trasparenti, per la spartizione dei posti. Con almeno due implicazioni. La prima è che personalità potenzialmente adatte per i nuovi incarichi di Lisbona – da Chistopher Patten a Pascal Lamy o altri ancora – non sono neanche state prese in considerazione. E non lo sono state perché l’interesse vero dei governi non era di scegliere da una rosa di candidati migliori possibili, come si potrebbe e dovrebbe. Era di riempire alcune prime caselle per averne poi altre. In un contesto di trade-off informali – questa la seconda implicazione – alcuni paesi, grandi ma non dominanti come l’Italia, hanno la vita più difficile di altri. E avrebbero quindi interesse a proporre regole del gioco trasparenti per la selezione delle nomine europee. Specie per quelle “pesanti” (dotate di competenze esclusive), la cui gestione influenzerà più di altre il futuro comune. L’adozione di criteri che tentino di combinare merito e responsabilità è un principio elementare di precauzione; reso esplicito, servirà anche a dare maggiore legittimità alle funzioni europee.

Per ora, ha scritto il direttore della London School of Economics, Howard Davies, “l’idea di scegliere la persona migliore per una determinata posizione è lontana dalla mente dei primi ministri”. Può darsi che il risultato vada bene comunque, in molti dei casi. Ma nell’Europa fondata sulle regole, il metodo conta. 

Further reading
New treaty, new teams, new policies – new Europe? di Antonio Missiroli
L’Europa di Lisbona: decollo graduale o falsa partenza? di Germanicus
Habemus papam di Riccardo Perissich