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Quanto pesa e cosa vuole la classe media in Cina

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La rapida crescita della classe media cinese, cominciata all’inizio degli anni duemila, rappresenta per Pechino un’arma a doppio taglio. Da un lato questo segmento di popolazione dovrebbe essere in futuro la vera forza trainante dell’economia della Repubblica popolare. Dall’altro non è da escludere che, dopo aver raggiunto un maggiore livello di benessere, la classe media pretenda più diritti e voce in capitolo nelle questioni politiche. Questo fattore e il persistente divario tra ricchi e poveri sono potenziali elementi d’instabilità per la Repubblica popolare e quindi per la sovranità del Partito comunista cinese (Pcc).


La più grande classe media al mondo

Il PIL cinese è cresciuto con un tasso medio del 10% negli ultimi trent’anni per poi cominciare a calare nel 2011 e attestarsi intorno al 7% nel 2015. Attualmente, è pari al 6.7% – almeno secondo i dati ufficiali. Secondo Pechino, tale rallentamento fa parte della transizione verso la “nuova normalità” del Paese, che sarà caratterizzata da crescita economica meno sostenuta, creazione di una “società moderatamente prospera”, minore dipendenza dalle esportazioni e maggiori consumi interni. Il compito di far lievitare questi ultimi spetta proprio alla classe media.

Per avere un’idea delle dimensioni di questo segmento di popolazione, bisogna scegliere una certa fascia di reddito come riferimento. Secondo un sondaggio dell’Accademia delle Scienze sociali cinesi, che fissa questa forbice tra gli 11.800 e i 17.700 dollari di reddito all’anno, nel 2012 la classe media rappresentava il 23% di tutta la Repubblica popolare, cifra ben al di sotto della media dei paesi sviluppati. 

Il rapporto della banca elvetica Credit Suisse del 2015 afferma invece che gli appartenenti a questa fascia di popolazione sono 109 milioni, mentre quelli statunitensi sarebbero 92 milioni. Ciò renderebbe la classe media della Cina la più grande al mondo. Credit Suisse ha scelto come criterio la fascia di reddito tra i 50 mila e i 500 mila dollari, generalmente utilizzata per identificare la classe media americana e quindi non allineata con i prezzi e lo stile di vita cinesi.

A prescindere dal metro di misura scelto, le statistiche mostrano che la classe media non rappresenta ancora la maggioranza della Repubblica popolare. Altri dati importanti sono ormai noti. La classe media cinese ha un’educazione di alto livello, è informata, abituata a viaggiare, orientata all’acquisto di prodotti tecnologici, all’utilizzo dei social network (quelli non censurati) e allo shopping online. Basti pensare che nel 2015 in occasione della “giornata dei single” (equivalente al “cyber Monday” e al “black Friday” degli Usa), i cinesi hanno speso ben 14 miliardi di dollari in acquisti online su Taobao, sito web di proprietà del gigante tecnologico Alibaba dell’imprenditore cinese Jack Ma. Lo scorso anno i due eventi americani hanno totalizzato insieme “solo” quasi 6 miliardi di dollari.

In tale contesto è rilevante lo studio di Goldman Sachs del 2013, che ha individuato i sette desideri chiave dei consumatori della Repubblica popolare: sembrare più belli, mangiare meglio, una casa migliore, migliore mobilità/connettività, divertirsi di più, benessere (educazione, salute) e alcuni beni di lusso. Circa la metà del reddito è speso nei primi due ambiti, mentre il “divertimento” è quello con maggiore capacità di espansione.

La classe media cinese è inevitabilmente legata al Partito comunista, dal momento che lo sviluppo economico del paese e l’attività imprenditoriale – sia pubblica sia privata – sono direttamente o indirettamente sotto il suo controllo. A ciò si aggiunga che, secondo le stime ufficiali, degli 85 milioni di membri del Pcc, 20 milioni sono dirigenti e tecnici professionali che lavorano per aziende e organizzazioni no-profit, e circa 7 milioni lavorano direttamente per il Partito o in agenzie statali.

Lo scorso anno il Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Pcc, ha affermato che l’ascesa della classe media non rappresenta una sfida all’autorità del Partito, anzi è fondamentale per sostenerne la legittimità. Il giornale inoltre sosteneva che la classe media era diventata una forza trainante nel mantenimento della stabilità – una fondamentale “voce razionale” – e che i paesi privi di essa come quelli in Medio Oriente e America Latina affrontano crisi politiche e il caos. Tali commenti hanno una notevole rilevanza poiché fanno da corollario alla prima vera esposizione della teoria dei “quattro complessivi” (in cinese si ge quan mian) elaborata dal presidente cinese Xi Jinping, sulla base della quale il Pcc svilupperà le politiche future. Questa prevede la “complessiva” costruzione di una società moderatamente prospera, il proseguimento delle riforme, il governare nel rispetto della rule of law e il rafforzamento della disciplina del Partito.

Il divario tra ricchi e poveri 

Malgrado la crescita economica degli ultimi trent’anni, i cinesi non sono certamente privi di preoccupazioni. Secondo un sondaggio del Pew Research Center del 2015, i loro primi quattro timori sono la corruzione, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e il gap tra ricchi e poveri: tutti problemi che Pechino sta cercando di risolvere.

Concentriamoci sull’ultima questione. Secondo la Banca Mondiale, da quando nel 1978 il governo ha dato inizio al periodo di “riforme e apertura”, circa 800 milioni di cinesi sarebbero usciti dalla condizione di povertà, cui appartengono coloro che guadagnano meno di 1.90 dollari al giorno. Si tratta di un risultato straordinario. Intanto, però, nel 2010 l’11.2% della popolazione – cioè 150 milioni di persone – viveva con meno di questa cifra. Il 27.2% – quasi 360 milioni di persone – aveva uno stipendio minore di 3.10 dollari al giorno. Insomma è vero che la classe media sta aumentando di dimensioni, ma il problema della povertà non può certo dirsi superato. Oggi il reddito medio delle famiglie nelle città è circa di 4 mila dollari all’anno, nelle campagne di 4 dollari al giorno – dunque meno di un terzo rispetto alle città. Inoltre, i salari, a prescindere se si tratti di centri urbani o zone rurali, sono nettamente più alti lungo la costa Est (nucleo politico ed economico del paese, dove si concentra la classe media) rispetto alle province interne.


Fonte: https://geopoliticalfutures.com/wp-content/uploads/2016/09/china-urban-disposable-income.jpg

Il rapporto di McKinsey del 2013, che fissa il reddito della classe media cinese tra i 9 mila e 34 mila dollari all’anno, prevede che nel 2022 il 75% dei consumatori urbani della Repubblica popolare apparterrà a tale fascia. La classe media dovrebbe crescere in misura maggiore nelle città più piccole nel Nord e nell’Ovest del paese. Ad ogni modo, circa il 61% di questa fascia di popolazione continuerà a vivere in quelle dell’Est.  Lo spostamento del baricentro geografico dovrebbe andare di pari passo con gli sforzi del governo per aumentare il tasso di urbanizzazione della Repubblica popolare e rendere le città nell’interno del paese non solo snodi infrastrutturali del progetto “Una cintura, una via” (che punta a collegare la Repubblica popolare all’Europa), ma centri pulsanti dell’economia cinese.

Il tredicesimo Piano Quinquennale (approvato lo scorso marzo), che fissa gli obiettivi di sviluppo economico e sociale del paese, prevede che entro il 2020 tutti gli abitanti delle campagne supereranno la soglia della povertà. Le autorità cinesi hanno annunciato recentemente che spenderanno 142 miliardi di dollari per ricollocare 16 milioni di persone fuori dalle aree più povere. Inoltre, la Commissione nazionale per la riforma e lo sviluppo della Repubblica popolare ha recentemente annunciato progetti provinciali del valore di 150 miliardi di dollari per stimolare la crescita in tutto il paese. Questi riguardano soprattutto il settore delle infrastrutture e regioni come la provincia sudorientale del Sichuan e la Mongolia interna.

In tale contesto si consideri che, secondo il China Labour Bulletin, gruppo basato a Hong Kong che difende i diritti dei lavoratori cinesi, nel 2015 si sono verificati circa 2.700 scioperi, il doppio rispetto all’anno precedente. Nel gennaio 2016 ne sono stati registrati 503 (poco meno di quelli avvenuti complessivamente tra il 2011 e il 2012) e da febbraio ne sono stati annotati in media 200 al mese. Queste cifre sarebbero dipese in larga parte dalla maggiore insicurezza percepita dai cinesi a causa del crollo delle borse di Shenzhen e di Shanghai e dal rallentamento generale dell’economia.

Qualora Pechino non riuscisse a rispettare gli impegni presi nel Tredicesimo piano quinquennale per soddisfare le esigenze della popolazione legate a terra, acqua, energia, ambiente e servizi sociali e colmare il divario tra ricchi e poveri, il malcontento potrebbe aumentare. Sia tra la classe media, futura forza trainante del paese ma ancora fredda all’idea di un cambiamento democratico, anche perché molto legata al Partito, sia tra i ceti più bassi. Elevando potenzialmente il rischio d’instabilità.