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Primarie e promesse, Washington e Teheran

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Nella campagna presidenziale del 2008, il giovane candidato democratico Barack Obama dovette (probabilmente controvoglia) prendere posizione su una controversa questione di politica estera – l’Iran – differenziandosi dalla linea molto dura scelta da Hillary Clinton. Anche oggi la questione iraniana si impone come uno dei punti ineludibili nei dibattiti delle primarie – in questo caso repubblicane.

In numerose  dichiarazioni nel corso del 2008, Obama cercò un difficile equilibrio tra disponibilità al negoziato con Teheran e sanzioni, tra diplomazia e opzione militare. Si disse così a favore di un “dialogo aperto” e senza precondizioni, pur riconoscendo che un Iran nucleare sarebbe una seria minaccia agli Stati Uniti e alla regione e che l’uso della forza come ultima istanza era un’ipotesi da non scartare. Sottolineò che è importante per Washington “parlare con i propri nemici” almeno quanto “parlare con gli amici”, e promise di impegnarsi, se fosse stato eletto, in uno sforzo di “dura diplomazia presidenziale”.

In risposta a questa presa di posizione, la grande favorita per la nomination democratica di allora, Hillary Clinton, accusò Obama di essere “ingenuo” sulla linea diplomatica verso Teheran. L’esito di quella battaglia elettorale è ormai storia, con la svolta nel campo democratico in giugno e il voto per la presidenza in novembre. Da allora molte cose sono successe sia in America che nel resto del mondo, ma la questione iraniana non ha visto radicali mutamenti – pur con un intensificarsi degli scontri interni al regime di Teheran e un parallelo inasprimento delle sanzioni internazionali, fino all’aumento della tensione nello stretto di Hormuz a cavallo di fine anno.

Nel complesso, si può comunque dire che Obama abbia mantenuto le promesse sull’irrisolta questione iraniana: ha fatto gesti distensivi nei primi mesi del suo mandato per verificare l’indisponibilità della controparte, e si è astenuto da mosse provocatorie. Intanto, è assai probabile che varie attività di sabotaggio siano andate a segno, sebbene i progressi del programma nucleare non siano stati fermati.

La campagna presidenziale del 2012 non potrà evitare il problema iraniano, come del resto altre questioni internazionali che quasi certamente i candidati repubblicani lascerebbero volentieri da parte. Obama non è molto vulnerabile in politica estera, visto che l’atteggiamento prudente assunto su ogni singolo dossier rende quasi inafferrabili le sue scelte internazionali: i suoi avversari non possono facilmente attaccarlo. Gli stretti vincoli di bilancio, anche per la difesa, creano un dilemma aggiuntivo per i candidati conservatori, tradizionalmente più favorevoli a spendere sulla sicurezza nazionale rispetto ai democratici.

Non c’è dubbio che i leader iraniani, come ad esempio anche le varie fazioni irachene o la galassia talebana in Afghanistan, conoscano bene l’agenda elettorale americana; cercheranno dunque di approfittare di una fase in cui l’amministrazione in carica sarà ancora più cauta del normale. Anche gli avversari politici del presidente, del resto, dovranno soppesare le parole: qualcuno potrà chiedere loro conto, un giorno, di dichiarazioni spregiudicate.

È su questo sfondo che osserviamo con curiosità il grande spettacolo delle primarie. La vecchia e potente democrazia americana, con tutti i suoi bizzarri meccanismi di selezione dei leader, sta oggi sperimentando ancora una volta la commistione inevitabile tra politica interna e affari internazionali. Nelle condizioni del 2012, sarà arduo per i repubblicani avvantaggiarsi sui temi di sicurezza nazionale che solitamente sono un loro punto di forza. Romney & Co. potranno quindi non gradire l’intreccio tra “locale” e “globale”. Prepariamoci invece a molti intrecci del genere fino al voto finale del 4 novembre.