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Politica e idee nell’America post-Obama

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Pochi giorni dopo le elezioni presidenziali americane del 2008, circolava sui media una vignetta che riassumeva così il senso della storica vittoria di Barack Obama: un suo elettore gli consegnava dei pani e dei pesci, dicendogli semplicemente “Do Something”. E come può un presidente “fare qualcosa”? Ha bisogno di idee, progetti, piani; di uomini e donne capaci di pensarli e attuarli. E, ovviamente, di consenso: da guadagnare nel Congresso, da trovare nel paese giorno per giorno, nell’estenuante altalena dei sondaggi e degli indici di gradimento. All’origine di tutto è quel momento magico nel quale migliaia di aspiranti consiglieri del principe si armano per combattere la guerra delle idee che porterà alcuni di loro – e solo alcuni – dentro la stanza dei bottoni (o almeno vicino alla porta), il luogo dove le loro aspirazioni verranno messe al servizio di una vera macchina di governo.

I centri di ricerca, o think tank, di Washington ma non solo, sono ormai da un secolo uno dei principali bacini dai quali attingere per trovare questi esperti e le loro idee, i quali poi aiuteranno l’esecutivo a governare, a costruire le politiche presidenziali e ad agganciare la propria azione pratica a una cornice di senso più ampia che fornisca un orizzonte culturale agli obiettivi del momento. Questi luoghi forniscono, allo stesso tempo, soluzioni pragmatiche e principi di riferimento, ma soprattutto persone: quelle che servono per occupare le posizioni apicali dell’amministrazione, che il presidente americano può far sue grazie allo spoil system americano.

Proprio in questi giorni, a un anno dalle elezioni presidenziali del 2016, la prestigiosa rivista Foreign Affairs – edita dal Council on Foreign Relations, uno dei più antichi e prestigiosi think tank degli Stati Uniti – offre ai propri lettori i propri “Essays for the Presidency“: 100 anni di duelli tra gli aspiranti presidenti – e i loro consiglieri – ospitati dalla rivista alla vigilia dell’appuntamento elettorale. Gli uni contro gli altri armati nel presentare la propria visione dell’ordine mondiale: difendere la politica estera di un primo mandato o attaccare quella di un’amministrazione in carica. Le élite politiche, scientifiche ed economiche si incontrano da sempre nei think tank di Washington: in assenza di partiti di stampo europeo che aiutassero a strutturare agende e programmi, essi hanno svolto ininterrottamente la funzione di serbatoi di pensiero e luogo della diplomazia parallela per le classi dirigenti del paese.

Sono però cambiati nel tempo, con l’evolvere della società e del sistema politico americano, e lo hanno fatto anche grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie. Mentre prima apparivano come circoli chiusi ed esclusivi – un passo indietro rispetto al dibattito che coinvolgeva il grande pubblico, lontani abbastanza dalla lotta politica quotidiana da potersi permettere ragionamenti complessi e dibattiti franchi – oggi sono sempre più coinvolti nel grande circo mediatico del web, dei social network e dei canali televisivi dedicati a trasmettere notizie a flusso continuo.

Tradizionalmente, questi luoghi erano pochi e comunque dominio di cerchie anche culturalmente molto ristrette: essi rappresentavano un punto di sintesi nel quale ricercare il minimo comune denominatore per le élite del paese, “università senza studenti” nelle quali era possibile cementare la visione di una buona parte dell’establishment. Una manciata di grandi centri aveva un peso importante nel dibattito sulla politica estera, la politica economica, le politiche urbane e di welfare… Tutto questo è durato all’incirca sessant’anni: all’alba della grande rivoluzione reaganiana, il think tank consensus è stato spazzato via dall’avvento di una nuova generazione di centri repubblicani e conservatori che ha deciso di creare nuove piattaforme culturali con le quali aggredire i nemici dello small government, oppure i fautori delle politiche di distensione nei confronti del nemico sovietico. Think tank come la Heritage Foundation, l’American Enterprise Institute (la casa dei neocon), il Cato Institute (di inclinazioni libertarie), nascono negli anni Settanta allo scopo di introdurre nuovi temi nel dibattito pubblico americano: per fare un esempio, la teoria della celebre “curva di Laffer”, che tanto influenzò le politiche fiscali reaganiane, trovò la via della divulgazione proprio grazie all’American Enterprise Institute.

Lo hanno fatto con strumenti diversi, utilizzando tecniche aggressive di marketing che hanno messo in difficoltà la vecchia guardia, rappresentata da centri come la Brookings Institution. Da allora il panorama dei think tank è mutato per sempre: molte più pubbliche relazioni, molta più comunicazione, anche in risposta al perenne ciclo di notizie dell’ultima ora, guerra senza quartiere per procacciarsi finanziamenti e accesso al circuito dei finanziatori. Fino a incappare in qualche scandalo, e sempre esacerbando quella polarizzazione ideologica che da tempo caratterizza il sistema politico americano.

Con ritardo, anche i Democratici si sono attrezzati per affrontare le proprie battaglie politiche e culturali con tecniche più aggressive, comprendendo che i think tank non combattevano più soltanto per conquistare cuori e menti delle élite, ma anche quella per una vasta fetta dell’opinione pubblica. Hanno così fondato nuovi istituti – il Center for the American Progress, per citare il più celebre, è nato negli anni Duemila – e hanno trovato propri grandi sponsor per controbilanciare i finanziatori dei think tank conservatori.

Oggi i think tank continuano a vendere ciò che hanno sempre prodotto: ricerca, proposte politiche, esperti pronti a essere assunti nell’amministrazione… E come a ogni appuntamento presidenziale – e ancor di più alla fine di un secondo mandato, quando ci si aspetta che tutto sia rinnovato – anche in questo 2015 rombano i motori che ruggiranno nella corsa tra pundits a caccia di un posto al sole. Con la speranza, però, che non ci si impantani in quello che proprio Foreign Affairs ha definito recentemente come “The Problem with Washington’s Planning Obsession“, ovvero l’ossessione per quelle “grandi strategie” che sono ben pochi a saper realizzare davvero una volta al potere.