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Perché Washington tifa Cameron e Mosca Orbán

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Le due grandi potenze della vecchia guerra fredda sono tornate a dividersi sulla sorte dell’Europa. O meglio: divise lo erano già, anzitutto sull’allargamento verso Est della Nato e dell’Unione europea. La crisi ucraina ha drammatizzato un problema che ha la sue origini nel modo (opposto) in cui Mosca e Washington hanno vissuto – subíto nel caso russo – l’evoluzione dell’assetto europeo dopo il crollo del Muro di Berlino. Ma il gioco è ormai più complicato di così; e non riguarda più soltanto i fianchi, o le periferie, del Vecchio Continente. Arriva al cuore.

L’America, nella fase finale della presidenza Obama, vuole un’Unione europea più integrata e più forte: per questo ha tifato per il Brexin, la permanenza di Londra nell’Unione – e avrà quindi brindato all’accordo in extremis di Bruxelles. Spiegando con “crudezza” la posizione di Washington, Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, ha sottolineato che un’Europa senza Gran Bretagna sarebbe ancora più dominata, di quanto già non sia, dalla Germania. Esito non auspicabile, secondo Haass, perché la preponderanza tedesca dividerebbe politicamente il Continente, segnerebbe il successo di una visione economica “mercantilista” e ridurrebbe la già scarsa propensione europea a svolgere un ruolo internazionale attivo. Un’Europa (troppo) tedesca – questa la tesi – sarebbe in realtà un’Europa più debole. Al tempo stesso, una Gran Bretagna disancorata dall’Ue conterebbe poco e sarebbe quindi meno utile anche agli Stati Uniti come alleato un tempo “speciale”. Si può essere o meno d’accordo con tesi del genere, tagliate con l’accetta. Segnalano, in ogni caso, che dal punto di vista di una potenza in fase di parziale ripiegamento – come gli Stati Uniti di oggi e forse ancora più di domani-un’Europa forte significa essenzialmente un’Europa “atlantica” ma meno dipendente dalla tutela americana. E confermano l’esistenza di una distanza sensibile da Berlino sulle strategie di politica economica: distanza emersa chiaramente di frontealla crisi del 2008 e confermata daldifficile dibattito tedesco sul TTIP, il nuovo Trattato transatlantico in eterna discussione.

La Russia, nella fase dominante della presidenza Putin, punta invece – per definizione, direi – su un’Europa debole: per questo appoggia partiti euro-scettici, entusiastici ammiratori di Mosca; e dopo avere tracciato a metà dell’Ucraina il limes invalicabile (per l’Europa) verso Est, sta muovendosi con spregiudicatezza sul fronte Sud. Dal Baltico al Mar Nero e oltre, la Russia sembra avere una visione unitaria, che manca invece al Vecchio Continente. In Siria, l’intervento di Mosca ha tenuto in vita Assad, nel vuoto conflittuale creato dalle difficoltà americane nel post-l’Iraq. Da una guerra che è fatta di molte guerre diverse, emergono, dopocentinaia di migliaia di vittime, il peso crescente degli attori regionali (Turchia, Arabia Saudita, Iran)e quello declinante dei paesi europei. D’altra parte, una delle conseguenze dell’assedio di Aleppo è la nuova ondata di rifugiati siriani: per Mosca, il vantaggio è di indebolire la Turchia – sua rivale diretta sul fronte siriano – e di accentuare gli ingredienti della crisi più grave che sta dividendo l’Europa. Nella vecchia politica russa del divide et impera, per anni realizzata coi gasdotti, si aggiunge ormai un elemento di politcs: la sponda offerta a Putin dai populisti e nazionalisti europei, in parte affascinati dal modello neo-autoritario e in parte interessati a usare la Russia contro Bruxelles. Due esempi recenti: la visita a Mosca di Viktor Orbán, il più vocale dei premier nazionalisti (anti)europei; il sostanziale appoggio economico che Marine Le Pen, leader del Fronte nazionale francese, sta ricercando da banche russe. Si aggiungela tradizionale rilevanza della Russia sull’asse balcanico-ortodosso, dalla Grecia e Cipro in su, con la sua centralità nelle rotte migratorie.

Mentre si moltiplicano i Consigli europei, le decisioni sull’Europa cominciano ad essere prese altrove. Sul fronte Est, la Casa Bianca (in un sussulto finale e inatteso di atlantismo) pianifica un aumento sensibile delle spese militari americane, per rafforzare – in appoggio ai nuovi membri della regione – le capacità dissuasive della NATO. Che, sul fronte Sud, ha invece appena approvato una missione di pattugliamento nell’Egeo; il rischio principale, collegato di nuovo alla Siria, è che la tensione fra Russia e Turchia (membro dell’Alleanza atlantica), possa sfuggire di mano.

Sembrerebbe un ritorno al futuro, non proprio una guerra fredda ma quasi, sui due fianchi esposti dell’Europa allargata e divisa, sia sull’asse Ovest/Est che su quello Nord/Sud. Ma non è solo questione di fianchi, dicevo. Il punto è che il “cuore” europeo soffre tutto l’impatto delle multiple crisi cui l’UE si trova di fronte e a cui non riesce a rispondere se non con estrema fatica e con grande lentezza: la ri-nazionalizzazione attraversa le capitali e non è solo il risultato della pressione di partiti populisti, di destra o sinistra che siano. Questa Europa che non riesce ad essere potenza finisce così per tornare ad essere uno spazio: un incrocio pericoloso, che gli europei non sembrano riuscire a governare. Né insieme né separatamente.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 21 febbraio 2016.