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Pechino e il Mar Cinese meridionale: forza, diritto, e presenza americana

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La decisione della Corte permanente arbitrale dell’Aja sulle dispute nel Mar Cinese meridionale – formalizzata il 12 luglio – non fermerà Pechino. I cinque giudici interessati hanno sancito che il comportamento della Cina viola la legge internazionale e interferisce in modo illegittimo con le attività che le Filippine svolgono nella loro “zona economica esclusiva”. Tuttavia, la risposta del Dragone (finora) è stata: business as usual. Intemerate retoriche e minacce a parte («la sentenza è carta straccia, siamo pronti a imbracciare le armi, creeremo un’altra zona di identificazione per la difesa aerea»), il partito comunista che regna a Pechino ha deciso apparentemente di proseguire per la sua strada rischiosa .

Perfino prima ancora di diventare  “Repubblica Popolare”, la Cina aveva gettato le basi per rivendicare la sovranità su quasi il 90 per cento del Mar Cinese meridionale attraverso la cosiddetta “linea dei nove punti”, nel 1947. Un pugno di scogli, isolotti e banchi sabbiosi inabitabili ma collocati su ricchissime rotte economiche e linee strategiche fondamentali, è al centro di una contesa che dura da decenni con altri paesi del Sudest asiatico quali Vietnam, Brunei, Taiwan, Filippine e Malesia.

Le isole Paracels, le isole Spratlys e lo Scarborough Shoal fanno gola per una serie di motivi: dal Mar cinese meridionale passano oltre cinquemila miliardi di dollari di merci, quasi il 50 per cento del commercio mondiale, e chi le controlla può anche minacciare di bloccare il passaggio delle navi e così tenere in scacco mezzo mondo in ogni momento. Le acque contese inoltre sono una risorsa economica che va ben oltre la pesca, dal momento che secondo diverse stime sotto il Mar Cinese meridionale giacciono dai 4 ai 25 mila miliardi di metri cubi di gas naturale e circa 30 miliardi di tonnellate di petrolio.

La Cina, che al contrario degli Stati Uniti ha firmato la Convenzione Onu sul diritto del mare (Unclos), entrata in vigore nel 1994, non è mai riuscita a portare la legge dalla parte dei suoi interessi. Decenni di incontri e scontri con gli altri paesi del Sudest asiatico non sono serviti a convincere questi ultimi a rinunciare ai loro diritti sulle isole contese. Così, Pechino ha deciso di usare la sua forza: tanto militare quanto economica. La Cina, negli ultimi anni, non ha soltanto costruito ed “espanso” almeno sette isole artificiali nell’area, ma le ha anche militarizzate dotandole di piste per l’atterraggio di aerei, caserme militari, ospedali e persino sistemi missilistici terra-aria in grado di colpire un aereo nel raggio di 200 chilometri. Chiunque si avvicini via nave viene avvisato e minacciato dalle pattuglie marittime cinesi.

Pechino però fa la voce grossa a livello internazionale più con la potenza economica che con quella militare, e il Mar cinese meridionale non fa eccezione. Quando nel 2012 le Filippine hanno cercato di opporsi al tentativo cinese di occupare di fatto lo Scarborough Shoal, come poi è avvenuto, la Cina ha lasciato marcire nei porti i prodotti agricoli filippini e ha fatto di tutto per bloccare il turismo cinese nelle Filippine, costringendo Manila a cedere e scendere a patti.

Anche per questo nel 2013 le Filippine hanno portato il caso davanti all’Aja e hanno vinto: i giudici, infatti, da un lato hanno respinto i presunti diritti storici avanzati da Pechino sul Mar Cinese meridionale, dall’altro hanno negato lo status di “isole” agli scogli controllati dalla Cina. Si tratta di una differenza sostanziale: le isole danno diritto a chi le detiene di esercitare una “zona economica esclusiva” di 200 miglia nautiche tutt’intorno; gli scogli o gli isolotti danno invece diritto all’usufrutto dell’area nel raggio di 12 miglia.

La Cina, da parte sua ha rifiutato il verdetto negativo (probabilmente atteso: già da tre anni piovono le critiche preventive), ha negato l’autorità della Corte, ha minacciato guerra, lasciando che i giornali di partito alzassero l’asticella della tensione e della retorica, e ha giurato che non farà neanche un passo indietro. Ciò comporta una violazione di fatto del diritto internazionale, dal momento che il giudizio è legalmente vincolante.

Pechino fa affidamento da un lato sulla debolezza della Corte, che non ha ovviamente strumenti propri per far rispettare la sua decisione. Dall’altro,  pur sapendo di non poter competere militarmente con la flotta statunitense, l’unica forza che potrebbe imporsi data la sua presenza massiccia nella zona, confida molto nella propria forza economica. A tutti i paesi asiatici in contesa per le isole è in grado di offrire, in cambio della loro compiacenza, ricchi investimenti attraverso la Asian Infrastructure Investment Bank e il progetto “One Belt, One Road”. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Pechino crede fortemente nella possibilità di trovare un accordo: una guerra per qualche scoglio in Asia non sarebbe digerita tanto facilmente dall’opinione pubblica americana.

Se Pechino non intende fare neanche un passo indietro è perché il Mar Cinese meridionale gioca un ruolo troppo importante nel “sogno cinese” propagandato dal presidente Xi Jinping. Nel tredicesimo piano quinquennale, approvato a marzo, la Cina ha ribadito che una delle priorità assolute è diventare una “potenza marittima”, attraverso la modernizzazione della flotta e proprio l’occupazione di territori strategici nel Mar Cinese meridionale e orientale.

Emblematica la frase contenuta nell’ultimo Libro bianco della difesa pubblicato dal governo cinese: “La mentalità tradizionale secondo la quale la terra supera di gran lunga [in importanza] il mare deve essere abbandonata. Bisogna conferire grande importanza alla gestione dei mari e degli oceani e alla protezione dei diritti e degli interessi marittimi”. Ecco perché la Cina deve rafforzarsi e “costruire una marina da combattimento efficiente e multifunzionale”. Il comportamento tenuto da Pechino nei confronti dell’Aja è coerente con gli annunci programmatici degli ultimi anni.

Resta da capire se gli Stati Uniti permetteranno alla Cina di espandersi e diventare così forte da minacciare la sicurezza di una delle rotte commerciali navali più importanti del mondo. Il “pivot” asiatico di Barack Obama ha portato nel Mar Cinese meridionale bombardieri, portaerei e cacciatorpediniere in pianta stabile per tenere l’area sotto controllo. Allo stesso tempo, da quest’anno, cinque basi delle Filippine accolgono  gli aerei americani. Inoltre, per la prima volta, Washington ha discusso pochi mesi fa con il Vietnam la possibilità di dispiegare attrezzature militari nella base di Da Nang.

Gli Stati Uniti dunque si preparano, ma sono evidenti le difficoltà nel contrastare l’ avanzata cinese, pianificata e perseguita con cura : vale davvero la pena scatenare una guerra per una colata di cemento e sabbia su un isolotto a pochi chilometri dalle coste della Cina?  E’ necessario quantomeno fissare una soglia oltre la quale una reazione militare americana potrebbe scattare.  Ad esempio,  l’ammiraglio Dennis Blair, ex capo della flotta americana nel Pacifico, la soglia è vicina : “Se la Cina prova a costruire un’altra isola artificiale nello Scarborough Shoal, credo che dovremmo agire militarmente. Tracciamo lì la linea rossa”.