Il debito pubblico non è un problema immediato per l’America. Almeno fino al momento in cui l’innalzamento del tetto del debito non diventa l’occasione per l’ennesimo scontro tra Democratici e Repubblicani e Washington precipita in quel particolare stato di delirio da chiusura dello Stato che è ormai un elemento ricorrente della vita della capitale. La crisi risolta il 17 ottobre, a pochi passi dalla soglia del default, si riproporrà quasi identica all’inizio del prossimo anno. Ma si tratta di una vicenda di natura politica, non economica.
Le stime del Congressional Budget Office (CBO)* dicono che nei prossimi dieci anni il debito pubblico passerà dal 73% al 71% del PIL, leggera flessione che giustifica il cauto ottimismo degli economisti ma che è il preludio a una crescita del debito fino al 100% del PIL fra venticinque anni.
Percentuale di per sé “alta ma gestibile” scrive Martin Wolf sul Financial Times. I problemi hanno piuttosto a che fare con la spesa pubblica e in particolare con i costi di Medicare – il programma di assistenza sanitaria pubblica per gli anziani – e di Social Security, il sistema di previdenza sociale. Questi sono destinati a salire dal 7,9% attuale all’11,1% nel 2038.
Per sostenere le crescenti spese dello stato sociale si può nutrire o affamare la bestia, secondo la terminologia di Reagan. Si possono aumentare le tasse o tagliare la spesa; oppure combinare i due strumenti. I dati del CBO dicono che servirebbe una manovra pari a circa il 2% del PIL americano (tra aumenti delle entrate e tagli) per riportare il debito al punto in cui era nel 2008, attorno al 39% del PIL. Con questa misura si raggiungerebbe l’obiettivo nel 2038.
Il problema è che l’economia americana ha innanzitutto bisogno di crescere. I dati sull’occupazione di settembre (140mila posti di lavoro creati) sono peggiori anche rispetto alla media, non esaltante, dei primi sei mesi dell’anno. Se l’America andasse avanti di questo passo raggiungerebbe livelli occupazionali pre-crisi nel 2022. Nel frattempo, 90 milioni di americani non solo non hanno un’occupazione ma hanno smesso di cercarla, uscendo così dalle statistiche della forza lavoro. Questo spiega perché il tasso di disoccupazione è al 7,2%, dato bugiardo che cela una ben più preoccupante realtà.
Normale che la Fed continui a posticipare (ed è probabile che continuerà a farlo ancora a lungo) la fine del programma di acquisto dei titoli con cui sostiene la crescita economica. Persino Ezra Klein, editorialista liberal del Washington Post, dice che in questo contesto anche i Democratici dovrebbero abbandonare la lotta sulle tasse, nel tentativo di far aumentare le entrate, per concentrarsi invece sulla crescita.
Ecco allora che dall’altra parte della barricata s’invoca un taglio netto, profondo della spesa pubblica, a partire proprio dal welfare state che per conservatori e libertari è la parte più letale del big government, ricettacolo di ogni male.
Anche indipendentemente dal debito, che rappresenta una preoccupazione di medio-lungo termine, molti osservatori si pongono alcune domande circa la sostenibilità del sistema di welfare e della spesa sanitaria. Nel suo ultimo libro Average is Over”, l’economista libertario Tyler Cowen traccia una prospettiva della situazione sociale americana inquietante e realistica. Nella sua previsione le disuguaglianze economiche cresceranno invece di diminuire, la middle class così come la conosciamo si sfalderà, la mobilità sociale diminuirà, ma allo stesso tempo ci saranno nuovi beni di consumo a basso costo per soddisfare le esigenze delle classi meno abbienti.
Il caso di studio che Cowen propone è quello del Texas, stato che attira ogni anno milioni di americani per la sua bassa pressione fiscale, le leggi business-friendly e il costo della vita più che abbordabile. Il Texas è un esperimento di successo che si può sostenere soltanto grazie al taglio radicale dei servizi statali, la contrazione delle spese, l’accettazione della diseguaglianza economica come fatto sociale ineluttabile. Una specie di modello scandinavo al contrario.
Lo stato in cui si trova la capitale Austin, e tante altre grandi città come Dallas e Houston, offre molte possibilità e poche protezioni: è una scelta di campo, non una stretta necessità.
Esattamente come una scelta di campo è quella che riguarda il debito pubblico. L’America può conviverci senza troppe preoccupazioni ancora per parecchi anni. Ma, a un livello più radicale, deve decidere quale modello sociale può – siamo nell’ambito delle possibilità reali, non degli ideali puri e disincarnati – abbracciare per tornare a crescere a ritmi accettabili dopo una recessione da cui il Paese non è uscito a forza di stimoli e iniezioni dello Stato centrale.
* In questo caso, il CBO si affida a una misura del debito pubblico usata frequentemente negli Stati Uniti e nota come “held by the public” – a volte lo si definisce “debito pubblico netto” – ovvero quella parte del debito pubblico complessivo che il governo ha preso in prestito da altri soggetti, ad esempio i contribuenti, per finanziare ripetuti deficit di bilancio. Questa misura non include quindi il debito detenuto da enti dell’Esecutivo stesso. Il debito pubblico complessivo degli Stati Uniti si aggira oggi sul 100% del PIL.