Il dato centrale della politica estera americana oggi, sia quella proposta dal presidente Barack Obama sia quella di Mitt Romney, è la straordinaria convergenza di idee. Questa supera di gran lunga, nonostante le apparenze polemiche, quella che ha tradizionalmente caratterizzato la bi-partisanship americana negli affari internazionali.
In America e nel mondo milioni di persone hanno seguito l’ultimo dei tre dibattiti televisivi fra i due candidati che si contendono la presidenza degli Stati Uniti. Il mezzo televisivo unifica il messaggio, e in apparenza anche il pubblico, eppure una rassegna dei commenti del giorno dopo fa emergere una differenza radicale nella valutazione dei risultati e del significato di quest’ultimo faccia-a-faccia.
Negli Stati Uniti ci si concentra non tanto sui contenuti del dibattito quando sul grado di aggressività dei due contendenti: nel loro ultimo scontro in diretta, Obama è stato visto come “in recupero di energia” rispetto al primo dibattito, in cui era apparso distaccato se non annoiato. Ma così come la sua clamorosa passività, il 3 ottobre, aveva avuto un disastroso impatto sui sondaggi, adesso non mancano i commentatori che sostengono che la performance combattiva del 22 ottobre sia stata comunque dannosa, facendolo apparire come not nice, sarcastico, arrogante (caratteristiche che in America non si perdonano, soprattutto a un intellettuale nero e progressista). Per converso Romney, che ha giocato totalmente in difesa, non si è esposto nemmeno su temi che avrebbero potuto offrirgli succose possibilità di attacco, come ad esempio la Libia, è apparso dignitoso e “presidenziale”.
A noi europei questo modo di valutare il dibattito, e in genere l’intera campagna presidenziale, appaiono veramente bizzarri, nel senso che le reazioni degli elettori, che si riflettono puntualmente negli ormai parossistici sondaggi, sembrano più adatte a una competizione per un Oscar alla migliore interpretazione che non alla contesa per il più importante incarico politico del mondo. Certo, le personalità contano, e conta anche il modo di presentarsi e di articolare le proprie posizioni, ma la sostanza dei programmi elettorali non dovrebbe essere secondaria.
Quali sono dunque le ragioni per cui la politica estera è stata praticamente assente (questo, tra l’altro, con la scomparsa di tematiche come Europa e NATO, e lo spazio abnorme concesso all’Iran, oggi immeritatamente promosso a sfida globale), se non in chiave eufemistica, edulcorata e generica, dal dibattito che doveva essere l’occasione per conoscere come i due candidati concepiscono il ruolo dell’America nel mondo?
La realtà è che esiste una sostanziale intesa tra Obama e Romney su questo terreno. Una convergenza obbligata e fatta di vari elementi. In primo luogo, nessun candidato – presidenziale ma anche parlamentare – può permettersi di mettere in dubbio il mito fondatore del paese: l’eccezionalismo americano, il fatto che l’America sia, e debba essere (nel proprio interesse, ma anche nell’interesse del mondo) “numero uno”. Pochi giorni fa l’International Herald Tribune pubblicava un articolo a firma Scott Shane dal titolo: “Regola per i politici americani: Noi siamo il Numero Uno!”. Un convincimento radicato nell’opinione pubblica e su cui non interferiscono i dati reali (su capitoli quali istruzione, mobilità sociale, sanità, infrastrutture) che smentiscono questa pretesa. Questa convergenza obbligata, va però osservato, è tutt’altro che politicamente neutra. Il trionfalismo americano risulta naturale per chi, come i Repubblicani (soprattutto nell’attuale fase di radicalizzazione a destra) è schierato su posizioni di conservazione sociale e affermazione di potenza. A disagio sono invece i progressisti come Obama che, per quanto moderato e sostanzialmente d’accordo con i miti fondatori dell’America, cerca invece di introdurre una visione fatta di limiti riconosciuti e cambiamenti inevitabili. Romney, da parte sua, non perde occasione per affermare che il suo avversario “chiede scusa” al mondo per la potenza americana, e non ha la stoffa necessaria per usare ovunque la forza anche militare degli Stati Uniti per la difesa dell’interesse nazionale e della libertà universale.
In secondo luogo, sarebbe stato normale che il dibattito fra i due candidati affrontasse esplicitamente la disastrosa eredità di George W. Bush: le guerre afghana e irachena. La guerra in Afghanistan, sebbene inizialmente giustificata dalla necessità di colpire al Qaeda nella sua base territoriale, si è poi risolta in un palese fallimento, con la perdita di vite umane e di enormi risorse a fronte di un paese ancora corrotto, arretrato, e probabilmente destinato a vedere i talebani ritornati al potere a Kabul: l’invasione dell’Iraq era falsa nelle cangianti premesse articolate per giustificarla (Saddam socio di Bin Laden; Saddam alla vigilia della acquisizione di armi nucleari) e si è risolta politicamente nell’instaurazione a Baghdad di un governo autoritario shiita che è sostanziale alleato dell’Iran. Ma se è ovvio che Romney preferisce evitare di menzionare l’ultimo presidente repubblicano, perché Obama evita una più che giustificata polemica retrospettiva? (fra l’altro, la stessa che potrebbe estendersi dalla politica estera all’economia, altro aspetto fondamentale del disastro politico di Bush). Entra in gioco qui la personalità di Obama: moderato autentico piuttosto che opportunista e – cosa che da due anni causa l’esasperazione di quei suoi entusiasti sostenitori che avevano sperato in un nuovo Kennedy, o almeno in un nuovo Clinton – una sua sostanziale freddezza nei confronti di avversari che intellettualmente non rispetta e che non degna di un vero attacco frontale sui temi di fondo. Già, perché il paradosso è che nel dibattito sulla politica estera Obama è stato aggressivo nella forma, ma debole nella sostanza. Come risultato, George W. Bush è stato il grande assente: un sollievo per Romney. Ma per Obama?
E che dire della virtuale intesa sull’Iran, tema su cui Obama ha indurito le sue posizioni (lasciando intendere che si opporrebbe “con ogni mezzo disponibile” non solo a un’arma nucleare iraniana, ma anche al conseguimento da parte dell’Iran della capacità di costruirsela) e Romney ha in parte ammorbidito le sue (insistendo sulla necessità di esaurire le opzioni diplomatiche prima di passare a una fase militare). Entrambi poi hanno puntato molto sulle “sanzioni paralizzanti”, senza veramente chiarire se le sanzioni sono un passaggio verso una maggiore flessibilità negoziale iraniana (che dovrebbe in parallelo comportare una flessibilità negoziale americana) o invece puntano a una resa totale di Teheran, e magari alla caduta del regime.
L’handicap del candidato democratico, comunque, non deriva solo dalla sua autentica moderazione politica, che lo ha fatto emergere, da presidente, come centrista-progressista piuttosto che un liberal-radicale. Anche per lui, evidentemente, risulta impossibile affrontare in chiave critica il mito fondatore dell’America, la sua fortissima e radicata ideologia, in particolare quella della toughness in politica estera. L’americano deve essere – e apparire – pacifico e rispettoso delle leggi e degli altri, ma solo fino a quando non compare sull’orizzonte il bad guy, il prepotente violento nei cui confronti (lo dimostra assai bene il cinema, da Mezzogiorno di fuoco a Cani di paglia) si scatena una violenza senza limiti e senza regole da parte del good guy. Di qui Abu Graib, Guantanamo, il waterboarding, i drones. E su questo terreno sono i Repubblicani, e Romney, ad avere buon gioco, presentandosi come i veri cultori e difensori di questa americanità fatta di violenta giustizia (ci stanno dentro, in politica interna, anche i livelli di carcerazione più alti del mondo e l’illimitato possesso di armi da fuoco da parte dei cittadini), mentre Obama può solo limitarsi a proporre moderate attenuazioni e regole restrittive, fra l’altro spesso bloccate (vedi il suo sincero progetto di chiudere Guantanamo) da un Congresso ostile.
Gli aspetti mediatici della campagna presidenziale non dipendono soltanto dalla peculiarità della cultura politica, e dell’ideologia, americane. La mancanza da parte dei candidati di indicazioni concrete sulle rispettive visioni (e sui rispettivi progetti) di politica estera derivano anche da altri dati oggettivi.
Basta leggere uno straordinario articolo uscito nell’ultimo numero della New York Review of Books (Hussein Agha e Robert Malley, “This is Not a Revolution”, NYR November 8, 2012) per rendersi conto del fatto che la totale “decostruzione” dei precedenti assetti politici americani, soprattutto in Medio Oriente, rende praticamente impossibile per gli Stati Uniti tracciare una politica che sia ad un tempo coerente e sostenibile.
Chiunque sia eletto alla Casa Bianca, dovrà necessariamente improvvisare di fronte a un proliferare di eventi inattesi, di scomposizioni e ricomposizioni di schieramenti e alleanze. Già oggi, ad esempio, gli americani non solo stanno collaborando in Egitto e probabilmente anche altrove con i Fratelli musulmani, ma non disdegnano nemmeno i contatti con i salafiti.
Ma come combinare questo pragmatismo obbligato con un’ideologia che continua a essere egemonica, e che nella base repubblicana si è ulteriormente radicalizzata in senso nostalgico-reazionario? E senza quell’ideologia, senza il Mito Americano, potrà l’America conservare l’immagine di sé alla quale, contro le repliche della storia, e anche dell’economia, continua a rimanere caparbiamente fedele?