Dalla sua missione in Asia orientale il presidente americano Barack Obama ha ottenuto in fondo ciò che voleva: la dimostrazione che il suo Pivot to Asia è ancora vivo e che, sia pure più lentamente di quanto si poteva pensare, procede il rafforzamento della presenza statunitense in Asia. Piaccia o non piaccia agli amici/nemici a Pechino. Va in questa direzione l’accordo firmato a Manila il 28 aprile, dopo otto mesi di negoziati, dal ministro filippino della Difesa, Voltaire Gazmin, e dall’ambasciatore statunitense Philip Goldberg. Autorizzando le truppe americane a utilizzare le basi dell’arcipelago, l’accordo infatti almeno in parte smentisce l’immagine di una amministrazione distratta da altre crisi, interne ed internazionali.
Le Filippine erano però la tappa più facile, essendo praticamente scontati l’accordo e le considerazioni che ne conseguono. Non pochi trabocchetti attendevano invece Obama a Seul e Tokyo, le prime due tappe del viaggio che lo ha portato anche in Malaysia. Nel ridefinire i rapporti con Giappone e Corea del Sud, colonne della presenza statunitense in Asia, il presidente americano ha visto facilitato il suo compito da un inatteso gioco di sponda con Pyongyang. La decisione di Kim Jong-un di riaprire il capitolo dei test nucleari gli ha infatti consentito di ridare sostanza al ruolo di Washington nella regione senza essere costretto a confrontarsi con le contraddizioni della strategia del Pivot to Asia e perfino senza evocare i fantasmi, per interposta crisi ucraina, dell’avvio di una seconda guerra fredda.
Tutto ciò che la Corea del Nord evoca ha il sapore semmai di un ultimo rigurgito di prima guerra fredda, e in questa ottica si possono ignorare certi problemi del presente, che la strategia del Pivot to Asia rischia di ingigantire: ad esempio l’impossibilità di bloccare la crescita cinese senza irritare Pechino o di conservare la supremazia diplomatico/militare degli ultimi 60 anni nel settore Asia-Pacifico tagliando nel contempo le spese. Ancorarsi a tematiche del passato significa invece consolidare i rapporti con i due principali alleati dell’area, Corea del Sud e Giappone, mettendo la sordina su quel “nuovo” che crea fondate preoccupazioni: il nazionalismo del governo Abe, che non dispiace a Obama quando gli serve per avvalorare il principio dell’autodifesa collettiva ma diventa un boomerang laddove suscita timori nei Paesi del continente che in passato hanno sperimentato gli effetti dell’imperialismo nipponico; le querelles tra Tokyo e Seul, stucchevoli e anacronistiche viste da lontano, ma insanabili per i protagonisti; la propensione del nuovo governo sudcoreano, anche in chiave antigiapponese, a stringere rapporti cordiali con la Cina, sfruttando anche una concreta base economico/finanziaria, alla quale Washington ha poco da contrapporre. Ci sono poi i crescenti timori di incidenti dalle imprevedibili conseguenze nel Mar Cinese meridionale, a causa delle contrapposte rivendicazioni dei Paesi rivieraschi.
Grazie ai timori che la Corea del Nord suscita, Obama ha potuto fare la voce grossa ed essere nello stesso tempo credibile nei confronti dei suoi alleati e dialogante verso la Cina. Ha avvertito i nordcoreani che le provocazioni non porteranno loro alcun beneficio. Ha annunciato che il trasferimento del Comando operativo in caso di guerra (OPCON) da Washington a Seul, previsto per l’anno prossimo, può essere rinviato, come richiesto dalla controparte sudcoreana. Su tempi e modalità del rinvio Obama non si è sbilanciato, ma l’annuncio implica che resta inalterato, come negli anni ruggenti della guerra fredda, l’impegno degli Stati Uniti a difendere la Corea del Sud da ogni aggressione. In Corea del Sud come in Giappone, porre sul tappeto il dossier della Corea del Nord è apparso un utile rimedio alla difficoltà di cementare l’alleanza tra Tokyo e Seul. Obama aveva organizzato all’Aja a fine marzo un minivertice a tre che però era servito solo a dimostrare che le pressioni americane non bastano ad ammorbidire i contrasti e a fare fiorire la cooperazione: è ancora lettera morta il patto sullo scambio di informazioni militari e tutto da inventare è il sistema regionale di difesa missilistica. A meno che, appunto, come negli ultimi giorni, non riaffiori lo spettro di una bellicosa e incontrollabile Corea del Nord che ormai preoccupa perfino la Cina, specie se in gioco c’è la proliferazione nucleare. Pertanto, proprio grazie alla effervescenza di Kim Jong-un, Obama ha potuto dare alla sua missione asiatica – almeno nella prima parte, la più delicata – una impronta non troppo sgradita a Pechino. La stabilità che Washington va ricercando con la sua rete di alleanze regionali appariva meno volta a “contenere” l’avanzata cinese e più interessata ad evitare tensioni che rappresentano, almeno potenzialmente, una sfida diretta agli Stati Uniti.
Non tutto ha funzionato a dovere, però. Con la presidente sudcoreana Park Geun-hye non si è potuto andare oltre un compromesso sul sistema congiunto di difesa missilistica: Seul continuerà a lavorare per averne uno autonomo, ma farà in modo che sia compatibile con quello americano. In Giappone Obama ha dichiarato di considerare “una terribile, enorme violazione dei diritti umani” il ricorso alle comfort women ed ha invitato i giapponesi a riconoscere con onestà gli errori del passato; ma è difficile che si aspetti davvero dal premier Abe Shinzo qualcosa di concreto su questo tema spinosissimo. Anche la ormai cronica crisi delle Senkaku/Diaoyu ha evidenziato le note ombre. I giapponesi hanno preferito sottolineare che per la prima volta Obama in persona ha affermato che le isole contese sono coperte dal Trattato di sicurezza. Ma Obama, riferendosi a quegli “scogli”, non si è pronunciato sulla legittimità delle contrapposte rivendicazioni di sovranità – una traccia seguita anche con le Filippine per la questione di Scarborough – limitandosi a esortare entrambe le parti a compiere atti che creino condizioni di reciproca fiducia.
Ancora peggio è andata con la Trans-Pacific Partnership. Fonti giapponesi hanno ammesso che è impossibile che si raggiunga un accordo complessivo alla prossima sessione del negoziato a 12, che si svolgerà in Vietnam a metà maggio. Il vice premier Aso Taro, noto per la sua “franchezza”, si è spinto oltre: Tokyo non rinuncia a proteggere i settori chiave dell’agricoltura, ha detto. È Obama che dovrà cedere, se vuole salvare il TPP e con esso tutto il Pivot to Asia, ma potrà farlo solo dopo le elezioni di midterm, il prossimo novembre. Per ora il presidente ha preferito sottolineare il fatto che durante il suo soggiorno a Tokyo è stata quantomeno individuata la strada per raggiungere un accordo – un modo per indicare comunque l’esigenza di più tempo. D’altra parte proprio gli avvenimenti delle ultime settimane sembrano convergere nel mostrare che il TPP è, tra i grandi obiettivi di Obama, il più facile da raggiungere: più facile di una reale denuclearizzazione asiatica, della pace tra israeliani e palestinesi, e di un accordo sul nucleare iraniano.
Nell’ambito del Pivot to Asia riuscire a varare il TPP è in effetti indispensabile perché la superiorità americana rispetto alla Cina resta schiacciante solo sul piano strategico, al netto del build up militare di Pechino e dei tagli di bilancio del Pentagono. Sul piano economico, malgrado il rallentato tasso di crescita e le contraddizioni strutturali della Cina, la situazione è molto diversa. Pechino è già il principale partner commerciale praticamente di tutti i Paesi dell’area, Australia compresa. Con la sua aggressiva politica di investimenti all’estero sta diventando anche un punto di riferimento finanziario di prima grandezza, specie per i membri del gruppo ASEAN. Insomma sempre più spesso la Cina viene vista come un generoso dispensatore di capitali e un promettente mercato.
È per questo che la Malaysia, terza tappa del viaggio di Obama, è particolarmente importante per gli Stati Uniti. Nel suo ruolo di nuova “tigre” del Sud Est asiatico, può fare pendere la bilancia dalla parte del TPP o di alternative di marca cinese più di ogni altro membro dell’ASEAN. Per il presidente americano non mancano però gli ostacoli in questo tentativo di aggancio strategico della Malaysia: l’impianto democratico del paese scricchiola, mentre la fortissima comunità cinese spinge inevitabilmente per legami più stretti con Pechino.