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Obama e il realismo della continuità – ma con scadenza

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Nel primo mandato, Obama ha fatto alcuni investimenti in politica estera che hanno prodotto un ritorno parziale, o in alcuni casi appena sufficiente a giustificare la spesa iniziale di capitale politico. Nei prossimi quattro anni si tratta di far fruttare appieno quegli investimenti. Per farlo, il presidente rieletto non ha vere alternative a una sostanziale continuità: ci saranno aggiustamenti, ma per almeno un anno non cambiamenti di rotta. Poi arriverà il momento di tirare le somme, e potremo allora vedere una politica estera in parte differente.

Anzitutto c’è l’investimento nel delicato mix di dialogo e contenimento rispetto alla Cina: una relazione bilaterale assolutamente indispensabile per la gestione di molte questioni globali e regionali, che ha un solido fondamento di interdipendenza economica ma poggia su basi politiche e culturali fragili. In sostanza, i due sistemi politici producono una forte diffidenza reciproca, sia al livello dei vertici sia tra l’opinione pubblica. Inoltre, la rete americana di alleanze regionali in Asia sembra in bilico tra un rilancio (che finirebbe però quasi certamente per provocare una reazione ostile di Pechino) e un allentamento (che finirebbe per ridurre il peso di Washington nella regione con il rischio di un eccesso di fiducia da parte cinese): entrambi gli scenari portano dunque con sé grossi rischi nel medio e lungo periodo. Nell’immediato, tuttavia, Obama dovrà mantenere la barra diritta, incoraggiando la nuova leadership della Repubblica Popolare ad assumersi maggiori responsabilità economiche internazionali (anche nell’interesse di una parziale riconversione del suo modello di crescita) e simultaneamente frenare le tentazioni cinesi di imporre la propria volontà ai vicini nei mari dell’Asia-Pacifico. Per ora l’equilibrio tra i due obiettivi può essere mantenuto, ma non è detto che la Cina accetterà i vincoli insiti nel suo ruolo internazionale di grande potenza economica mentre affronta la miriade di problemi connessi ad un reddito pro capite basso, a gravi disparità interne, e a un sistema politico quasi completamente bloccato. Se prevarranno i fattori di aggressività in politica estera e di instabilità interna al paese, l’America dovrà rivedere i suoi assunti di fondo.

Un secondo grande dossier sul quale Obama ha investito e ottenuto un ritorno parziale è quello iraniano: intanto si deve ritenere un successo l’aver rallentato il treno in corsa che soprattutto durante l’estate 2012 sembrava lanciato verso uno scontro frontale Israele-Iran – e che inevitabilmente avrebbe coinvolto gli Stati Uniti. Teheran non ha abbandonato il programma nucleare clandestino, ma pare aver capito che i rischi stanno crescendo anche per la sopravvivenza stessa del regime, tra sanzioni internazionali più dure e pressione israeliana su Washington affinché si brandisca apertamente la minaccia militare. Obama ha mantenuto la linea di un possibile negoziato multilaterale, a determinate condizioni, guadagnando tempo pur senza risolvere il problema alla radice; questa strategia non si è ancora esaurita del tutto ma non potrà proseguire a tempo indeterminato se l’Iran riprenderà le attività di arricchimento dell’uranio a pieno ritmo. La scadenza c’è, anche se probabilmente è meno ravvicinata di quanto il governo Netanyahu abbia finora sostenuto.

Un terzo investimento politico deciso dal presidente nel quadriennio 2009-2012 è relativo alla Federazione Russa: il famoso o famigerato “reset”. La Russia non è in realtà centrale nella visione globale di Obama, e per ottime ragioni – si tratta di una potenza tuttora in declino senza grandi prospettive. Mosca ha però dimostrato in più occasioni di saper creare problemi, sfruttando ogni occasione per acquisire vantaggi magari marginali ma comunque a discapito degli obiettivi di Washington. Fintanto che il costo delle concessioni americane – soprattutto un occhio di riguardo sul piano retorico e un ritmo rallentato nello schieramento delle difese antimissile in Europa – sarà limitato, questa linea può continuare; ma soprattutto gli sviluppi mediorientali (Iran e Siria) potrebbero presto imporre di fatto una svolta a questa fase di limbo russo-americano.

Il caso della Siria è diverso dai precedenti, perché la scelta di Washington è stata fin qui talmente prudente da risultare quasi passiva a fronte del collasso di un paese centrale negli assetti geopolitici del Medio Oriente. È anche vero però che tutti comprendono il costo elevatissimo di un’eventuale decisione avventata o comunque interventista se non vi fosse l’intenzione di arrivare fino in fondo e usare (anche) la forza militare in modo massiccio. Come molti altri governi, l’amministrazione Obama ha dunque sperato, fino ad oggi, che non si rendesse indispensabile un intervento militare per contenere i danni umanitari e il contagio (politico e di sicurezza) verso i paesi vicini; ma è arrivata l’ora di influenzare più direttamente gli equilibri sul terreno prima di essere davvero costretti a intervenire – o quantomeno a sostenere un difficile intervento da parte di uno o più paesi della regione. Il realismo pragmatico di Obama richiede ormai l’assunzione di maggiore iniziativa diplomatica, nella consapevolezza che la diplomazia quasi certamente non basterà.

Questo è una sorta di complessivo “piano A” su alcuni dei temi internazionali più urgenti. Come sempre in politica, ci sarà comunque l’esigenza di frettolosi “piani B” per reagire alle immancabili sorprese. A farlo con Obama, del resto, sarà un team di governo parzialmente rinnovato, dal Segretario di Stato a quello al tesoro e al direttore della CIA.