Il problema è che l’impianto della politica estera dell’amministrazione è stato finora quasi totalmente privo di un pilastro essenziale, cioè quello della democrazia (o meglio della democratizzazione liberale) come obiettivo in sé nelle relazioni internazionali – sebbene ovviamente da combinare con altri obiettivi. E’ un problema vecchio come l’America, che perfino uno dei grandi esponenti della realpolitik come Henry Kissinger ha sempre tenuto in conto con lucidità: “Certainly, to be truly American, any concept of national interest must flow from the country’s democratic tradition and concern with the vitality of democracy around the world” (Does America Need a Foreign Policy?, 2001, p.31).
E’ evidente che l’attuale amministrazione è molto lontana dalla visione “neocon” (quasi iperattiva e ad alto tasso ideologico), credendo invece nell’esercizio cauto del potere americano. E ne deriva uno sforzo di intavolare trattative anche con le controparti più sgradite, ma non è sempre chiaro a quali condizioni – visto che l’espressione “senza condizioni” non può essere presa sul serio in un’ottica rigorosamente realista.
Per Obama, la transizione dall’approccio di G.W.Bush (soprattutto dei primi sei anni del doppio mandato di Bush) è stata poi influenzata, in modo particolare, dalla volontà di districarsi rapidamente dalla retorica del “regime change” che impediva di negoziare con l’Iran. Il pendolo ha finito così per oscillare perfino troppo bruscamente nella direzione della pura realpolitik. La fase del dopo-Bush è però finita, e non basta più distinguersi dal predecessore per raccogliere consensi, mentre contano soltanto i risultati concreti.
I limiti della realpolitik improntata alla modestia sono emersi piuttosto rapidamente, a cominciare proprio dall’Iran, con le elezioni del giugno 2009: le contestazioni di piazza contro il regime hanno costretto l’amministrazione Obama a percorrere una strada strettissima, per criticare il governo Ahmadinejad senza però schierare l’America apertamente con l’opposizione iraniana (visto l’obiettivo prioritario di mantenere aperto il canale del dialogo sul dossier nucleare). Ciò ha spinto il Presidente e il Segretario di Stato a veri equilibrismi verbali. Ma non si tratta soltanto di una difficoltà retorica e di public diplomacy; ci sono implicazioni geopolitiche di primo piano. Basti pensare al fatto che l’intero approccio obamiano richiede un parziale e progressivo “retrenchment” strategico: il problema è che una grande potenza in fase di riduzione degli impegni diretti deve avere ben chiaro dove fissare i punti fermi, cioè i confini da non valicare per concorrenti e avversari. Altrimenti la sua moderazione sarà interpretata come semplice debolezza.
E’ proprio questa chiarezza sui punti fermi che è mancata, finora, nella politica estera dell’amministrazione – come risulta in particolare dalle affermazioni sul carattere “inaccettabile” del nucleare iraniano accompagnate però al rafforzamento delle difese antimissile dei paesi del Golfo. Il quesito diventa legittimo: ci si prepara dunque a contenere l’Iran mentre si negozia, si annunciano sanzioni più dure, e si dichiara inaccettabile il passaggio della soglia del nucleare militare? Se è così, che soglia è? Ed è davvero possibile ignorare quanto succede per le strade di Teheran come se fossero soltanto “affari interni”?
In sostanza, le caratteristiche interne dei paesi “problematici” non sono affatto irrilevanti, per quanto buone siano le ragioni che inducono comunque a voler coltivare un rapporto – più o meno cooperativo – con i regimi al potere.
In un contesto diverso, è la questione che si pone anche rispetto al Tibet del Dalai Lama: una Cina che non voglia o non riesca a trovare un qualche compromesso sulla parziale autodeterminazione dei tibetani sarà un paese che proietta sul piano internazionale una visione non compatibile con quella americana. E, presto o tardi, la visione del mondo si trasforma in scelte politiche concrete che producono contrasti: una prospettiva a dir poco preoccupante visto che con Pechino si stanno di fatto riscrivendo le regole del gioco del sistema globale. Intanto, nonostante l’insistenza di Washington sul fatto (o l’auspicio) che le relazioni siano-americane siano sufficientemente “mature” da sopportare divergenze anche su questioni rilevanti, la realtà è che il presidente non può non incontrare il Dalai Lama.
Un ulteriore passaggio intellettualmente decisivo potrebbe rivelarsi il discorso pronunciato da Obama, lo scorso dicembre, per l’accettazione del Premio Nobel per la pace. In quell’occasione il Presidente ha insistito sul concetto della “guerra giusta”, cioè il ricorso allo strumento militare per contrastare (o punire) una violazione non soltanto del diritto internazionale ma anche, in taluni casi, di norme etiche perfino al di fuori delle tutele giuridiche. Un terreno ovviamente molto scivoloso, sul quale tuttavia Obama ha ritenuto necessario entrare per prevenire le accuse di essere nient’altro che un pacifista. E lo ha fatto non soltanto in un’ottica “realista” – per cui la forza è a volte l’unica soluzione praticabile – ma riferendosi anche all’idea di “enlightened self-interest”, cioè a determinati valori e principi che guidano le scelte politiche americane. In quest’ottica, oltre all’auto-difesa c’è dunque l’ipotesi degli interventi umanitari, ma il passo non è lunghissimo per arrivare a forme di coercizione internazionale contro regimi repressivi: nel discorso di Oslo, Obama ha citato in proposito l’esempio della Birmania, ma si è riferito anche alle proteste di piazza iraniane per concludere quantomeno che la storia è dalla parte dei movimenti che lottano per la libertà. Non proprio un aperto sostegno, ma una prima concessione all’internazionalismo liberale di cui finora si è vista pochissima traccia.
A Washington si sta riscoprendo in fretta il peso di un’eredità storica o forse di un vero “destino” americano: il realismo in politica estera non è praticabile né sostenibile, per gli Stati Uniti, se non viene temperato da una certa dose di esplicita adesione ai valori distintivi della propria esperienza nazionale. E’ al tempo stesso un’esigenza interna e una parte integrante del soft power americano verso l’esterno. Non è plausibile che i molti fautori dello smart power tra le fila dell’amministrazione avessero dimenticato questo aspetto decisivo; piuttosto, hanno scelto inizialmente di concentrare gli sforzi su alcuni interessi fondamentali per cambiare il clima internazionale e fare degli Stati Uniti una controparte più pragmatica.
I primi mesi in carica per l’amministrazione Obama sono così stati dominati dal tentativo di comunicare una generica disponibilità e ridurre la sovraesposizione americana all’estero – a maggior ragione in piena crisi economica. Purtroppo questa linea non ha prodotto risultati immediati, e del resto la scommessa era sul medio e lungo periodo. Intanto però la fase di rodaggio deve considerarsi conclusa, ed è ora che a Washington si proceda a ricalibrare la politica estera con un diverso mix.
Ciò non vorrà dire l’abbandono della strategia prudente e selettiva, del resto confermata dal punto di vista militare dalla nuova Quadrennial Defense Review del Pentagono. Ma vorrà dire che sentiremo parlare più spesso di democrazia, diritti umani, guerre giuste. Change you can believe in.
Il testo del discorso sullo stato dell’Unione, Barack Obama, 27 gennaio 2010