Magari non sarà mai dichiarato apertamente, ma il Vaticano osserva Barack Obama come minimo con un filo di perplessità. Per le gerarchie cattoliche rappresenta un punto interrogativo. Lo considerano un grande oratore senza esperienza; un innovatore in grado di mobilitare le folle democratiche ma non di unificare gli Stati Uniti: capacità conciliatrice e di leadership che sarebbe mancata peraltro anche al candidato repubblicano John McCain. Non sanno ancora decifrare l’impatto che avrà il background educativo e religioso di Obama. E soprattutto, temono che l’ipoteca del Partito democratico finisca per indurre il presidente eletto ad una politica di “relativismo etico”.
È una sorta di virus “liberal” che il Vaticano tende ad associare da anni all'”asinello” statunitense; e che l’alleanza sui “valori” fra neoconservatori e Santa Sede ha tenuto parzialmente sullo sfondo, a parte la lunga parentesi delle presidenze di Bill Clinton. Nel 2004 il paradosso divenne evidente. Sospettosi verso i Democratici e la loro “coalizione arcobaleno”, sia il Vaticano (discretamente) sia diversi vescovi Usa preferirono appoggiare il metodista Bush al cattolico di Boston John Kerry, considerato appunto troppo “progressista” in materia di aborto e divorzio.
Ma adesso che Gorge Bush esce di scena senza lasciare rimpianti, viene rimessa in forse anche quella sintonia di vertice fra Casa Bianca e Vaticano. E con Obama si apre una fase nella quale i due “imperi paralleli” dell’Occidente dovranno ricominciare a studiarsi e a ricalibrare rapporti che negli ultimi anni erano diventati di piena collaborazione. La parentesi del duro contrasto fra Giovanni Paolo II e Bush sulla guerra in Iraq era stata diplomaticamente chiusa. Il confronto si era spostato sui temi etici, terreno più di assonanze che di divergenze con la presidenza “religiosa” dell’esponente repubblicano.
Durante le presidenziali del 2008, l’episcopato statunitense è apparso diviso, come lo sono i circa 67 milioni di cattolici: segno che è finita la “diversità” di questo gruppo di elettori, ormai integrati e amalgamati pienamente con la società americana. E si è guardato bene dall’attaccare frontalmente il senatore di Chicago, dato in vantaggio fino all’ultimo in gran parte dei sondaggi. Indirettamente, però, dai circoli vaticani anglosassoni e sulla base delle analisi più riservate arrivate in Vaticano dagli Usa, qualche segnale di diffidenza è affiorato.
Il 1° novembre, a tre giorni dal voto, il settimanale cattolico britannico “The Tablet” ha ricordato che Joseph Biden, il candidato democratico alla vicepresidenza, appoggia i matrimoni omosessuali. E pochi giorni prima, cinquanta dei centonovantasette vescovi Usa si erano premurati di far sapere ai propri cittadini elettori che era la bussola dei “valori morali” a dover guidare la scelta del prossimo inquilino della Casa Bianca, e che l’atteggiamento verso l’aborto valeva quanto e più delle ricette economiche. Considerazioni apparentemente asettiche, che però sembravano tagliate su misura per favorire McCain.
L’appartenenza di quest’ultimo al partito di Bush, seppure come battitore libero e spesso in contrasto con l’apparato, lo ha accreditato agli occhi della Santa Sede come una sorta di “male minore”. Si tratta di aspetti rimasti prevalentemente in ombra. In una situazione sovrastata dal panico per la crisi finanziaria, l’opinione pubblica si è concentrata su posti di lavoro e potere d’acquisto. Ma nessuno ritiene che la religiosità che impregna l’America profonda sia scomparsa di colpo; e che non tenterà di condizionare le scelte del prossimo presidente in politica interna.
La preoccupazione della Santa Sede, però, riguarda altrettanto la politica estera: in primis l’evoluzione del dopoguerra in Iraq. L’atteggiamento di Barack Obama è stato di contrarietà al conflitto. E, come sappiamo, implica l’impegno della Casa Bianca ad un ritiro rapido delle truppe statunitensi. Probabilmente, una volta insediatosi sarà costretto a rivedere almeno in parte questo piano. Altrimenti, sull’Iraq potrebbe ritrovarsi a perorare interessi divergenti anche con quelli del Vaticano.
Già adesso, gli uomini di Benedetto XVI ritengono che gli Usa facciano poco per proteggere le minoranze cristiane in Iraq: tanto più dopo avere accelerato il loro esodo forzato a causa della guerra. La comunità irachena dei cristiani caldei è passata in pochi anni da 700 mila a 350 mila fedeli. E le persecuzioni continuano. In caso di ritiro rapido, il rischio di un’esposizione a rappresaglie crescerebbe di molto. Per questo, a differenza perfino di alcuni Paesi europei, il Vaticano ha sempre sostenuto la permanenza delle truppe Usa: almeno fino a quando la situazione apparirà normalizzata ed in grado di garantire la sopravvivenza di tutte le minoranze, anche religiose.