international analysis and commentary

Obama a metà strada

237

Attualmente, il Senato è diviso 59 a 41 a favore dei democratici; la Camera 255-178 (con 2 seggi vacanti). I sondaggi prevalenti danno oggi 49-46 al Senato per i democratici, con 5 seggi a parità, e 188 contro 210 alla Camera a favore dei repubblicani, con 37 a parità. Il risultato finale più probabile, secondo la maggior parte degli osservatori, sembra essere 50-50 o 51-49 al Senato (i democratici terrebbero stentatamente la maggioranza) e meno di 200 contro oltre 230 alla Camera: i repubblicani otterrebbero una discreta maggioranza, ma – cosa forse più importante dei numeri – avrebbero anche tutte le presidenze. 

La crisi economica è percepita dalla maggioranza degli americani come una realtà quotidiana e acutamente tangibile, non come un oscuro disagio. I grandi programmi per riformare l’America non fanno più presa sugli elettori: la amministrazione Obama non riesce a creare un collegamento tra quello che fa, e l’atteso sollievo per i disoccupati e i precari. Gli elettori vedono una disoccupazione che in sostanza non si muove, il deficit federale che cresce, si aspettano le inevitabili tasse per contenerlo, e non sono sicuri di continuare ad avere un reddito – mentre Wall Street annuncia profitti record.

Gli americani spendono, ma per tre cose risparmiano: l’educazione, la sanità e la vecchiaia, voci sostanzialmente anelastiche in mancanza di risparmio personale. Quindi, la crisi grava da ultimo proprio sui consumi, che dovrebbero essere normalmente il motore della ripresa, creando un circolo perverso. Peggio: questa crisi è contemporanea all’ascesa imperterrita delle nuove potenze economiche. Ciò significa che non c’è solo un calo nell’attività (che potrebbe riprendere quota) ma anche un suo simultaneo trasferimento ad altri paesi, più difficile recuperare.

Il legame tra crisi, disoccupazione, declino relativo degli Stati Uniti potrebbe condizionare più di un ciclo elettorale.

Il ciclo politico: fattori essenziali
1. Il riflusso. A pari condizioni, più il successo elettorale in una elezione presidenziale è netto, maggiore può essere il riflusso due anni dopo: l’ondata di una elezione particolarmente “trasformativa” porta al Congresso molti nuovi nomi, ma non tutti necessariamente di qualità, non tutti con solide maggioranze, e molti di loro in distretti dove la tendenza “ordinaria” tende da decenni ad essere di segno opposto – e quindi tende a invertirsi alla prima occasione utile. Ossia, negli USA, alle elezioni di “mezzo termine”, dopo i primi due anni del quadriennio presidenziale. Ciò è particolarmente vero alla Camera (che viene rieletta completamente ogni due anni) più che al Senato (che si rinnova un terzo ad ogni elezione). Questo fenomeno, da solo e a prescindere dai meriti dell’amministrazione al governo, probabilmente significa tra venti e trenta seggi alla Camera che torneranno repubblicani.

2. Consuntivo del biennio. Oggettivamente, il bilancio di Obama non è cattivo. Il Presidente è stato eletto anche grazie all’inquietudine degli americani per la situazione dell’economia, ma poi ha dovuto governare una crisi epocale e aver tenuto l’America attorno al 10% di disoccupazione non è un risultato da trascurare. Oggi Wall Street sembra tornata a funzionare, l’industria dell’auto non parla più di fallimento, e la Casa Bianca è riuscita a fare passare alcune iniziative legislative di programma – oltre ai provvedimenti di emergenza: riforma finanziaria e riforma della sanità in primo luogo. E questo in una situazione in cui i repubblicani hanno scartato qualunque forma di collaborazione. Obama ha in ogni caso negoziato con le lobby e con l’opposizione, e ha pagato un prezzo: l’annacquamento di certe misure, l’adattamento di altre a tutela di gruppi settoriali “pesanti” (farmacisti, assicuratori, etc.). La sanità non costerà di meno, e le stravaganze di Wall Street non saranno completamente arginate, ma il prezzo maggiore è stato pagato all’interno del partito democratico (l’ala progressista ha perso fiducia, e molti elettori sono demotivati). Altri programmi si sono persi per strada, in parte anche per scelte strategiche dell’entourage di Obama alla Casa Bianca (tra queste, la decisione di dare priorità esclusiva alla riforma sanitaria, abbandonando la riforma energetica alle forze spontanee del Senato). In definitiva, le realizzazioni non mancano, ma non sono bastate a arginare il declino di consenso. O perché non esistevano elementi oggettivi sufficienti per valorizzarle col pubblico (che ha altre priorità: la disoccupazione), o perché la Casa Bianca ha sorprendentemente perso la battaglia della comunicazione.

3. Follow the money: i repubblicani stanno spendendo più denaro, attraverso i canali pubblici, dei democratici. In aggiunta, l’effetto della recente sentenza della Corte Suprema [1] che estende ai soggetti giuridici la protezione dei diritti personali (libertà di parola) già garantita per le persone fisiche, è che i fondi del big business affluiscono ora anonimamente ai politici: secondo alcuni media, in proporzione molto maggiore (anche di sette a uno) vanno ai candidati repubblicani o del Tea Party.

4. Il governo federale funziona male, particolarmente il Congresso: anche in presenza di maggioranze politiche rilevanti, da tempo non riesce a legiferare. Quasi mezzo secolo fa, si parlava di “presidenza imperiale” [2]: l’asse del potere e della responsabilità era fermamente centrato sull’ Esecutivo. Oggi il Congresso è tornato ad essere cruciale, ma al tempo stesso è vittima di una pratica ostruzionistica ormai regolarmente seguita dal partito che si trova in minoranza (il che vale per entrambi i partiti, non solo i repubblicani).

5. “Tea Party”, “Third Party”; repubblicani, democratici. I partiti tradizionali forniscono sostegno politico, parte del denaro, supporto organizzativo, e “know how” elettorale indispensabili ai candidati per vincere; ma sono visti dal pubblico come carrozzoni corrotti ed inefficienti, preoccupati solo di mantenersi a Washington con i soldi delle tasse, e inaffidabili quando si devono affrontare i problemi della nazione. Di qui il “Tea Party”, che combina elementi di destra (rivolta fiscale e conservatismo tradizionale) e di sinistra (populismo egalitario: “middle class” = “working class”), ma resta da ultimo nella famiglia repubblicana, in contrapposizione alla comparsa ricorrente di un “terzo partito” radicale [3]. L’impulso è lo stesso, ma il “Tea Party” si ribella contro chi sembra fare ostacolo all’ascesa sociale (è la retorica dell’American dream), mentre il “third party” attira chi cerca piuttosto tutela che ascesa. Questi “terzi partiti” costano spesso l’elezione a candidati dei partiti tradizionali: Nader ha affondato Gore nel 2000 [4], e Ross Perot (buon esempio di “Tea Party” ante litteram) ha ottenuto nel 1992 quasi 20 milioni di voti, che avrebbero fatto la differenza per Bush padre. L’appoggio del Tea Party può allontanare i moderati; ma intanto porta denaro e attinge alla rabbia degli elettori (quelli che non hanno già deciso di restare a casa il 2 novembre).

Gli scenari possibili
1. Scenario più probabile: Senato democratico (per un soffio), Camera repubblicana, con uno scarto di trenta/quaranta seggi. È incerta la rielezione dell’attuale Leader della Maggioranza, il Sen. Reid del Nevada. In teoria, potrebbe verificarsi una vittoria democratica ma con un nuovo Leader: sarebbe un segnale politico di per sé interessante.

Dopo una sconfitta democratica alla Camera, il nuovo Speaker sarebbe il congressman John Boehner dell’Ohio, attuale Minority Leader, che sta in effetti muovendosi come se l’elezione fosse già avvenuta. Non sarà facile per Boehner, in ogni caso, far passare provvedimenti con una maggioranza di una quarantina di seggi (quando la Pelosi, che pure non manca di energia, ha faticato per governarne una di quasi ottanta), avere un Senato contrario, e scontrarsi da ultimo con possibili veti presidenziali. Fattore ancora più significativo, maggioranza repubblicana significa anche presidenza di tutte le commissioni della House per almeno il prossimo biennio, e questo è uno sviluppo importante, perché le presidenze hanno poteri ragguardevoli: decidono l’agenda legislativa, chiamano a testimoniare i membri dell’amministrazione.

2. Caporetto dei democratici. Una bassa affluenza alle urne andrebbe a vantaggio dei repubblicani (il nocciolo duro degli elettori sicuri tende ad essere dei loro, mentre il voto giovanile e delle minoranze – decisivo nel 2008 – si esprime essenzialmente alle elezioni presidenziali); un afflusso più alto favorirebbe i democratici. Negli Stati Uniti si vota un solo giorno, che è sempre lavorativo. Anche le condizioni del tempo faranno la differenza (con la pioggia si voterà meno). Mobilitare votanti nuovi e marginali rimane comunque più difficile; per votare, come noto, è necessario registrarsi individualmente presso il distretto di appartenenza. Se l’afflusso alle urne sarà molto basso, per motivi come questi o semplicemente perché lo smalto della presidenza Obama è stato perso per strada, i repubblicani potrebbero spazzare via ogni cosa, rovesciare l’attuale maggioranza della Camera (tipo 250-180) e portare a casa anche il Senato.

3. “Sursaut d’orgueil” dei democratici. Anche pochi giorni in politica sono una eternità: nel mondo politico americano una frase sbagliata, un microfono rimasto aperto, una email al destinatario sbagliato, possono rovesciare le sorti di una elezione. In altri termini: candidati di entrambi i partiti potrebbero perdere le elezioni per un “incidente”. Una cosa del genere è costata l’elezione a Kerry nel 2004. Va considerato che sulle 430 contese elettorali per la Camera, 300 sono quasi sicure in un senso o nell’altro; inoltre, quasi 80 seggi del Senato non sono in ballottaggio o ai fini pratici sono imprendibili. Si vota quindi, in realtà, per 130/150 seggi della House e per una ventina di seggi del Senato (se prescindiamo per un momento dai governi degli Stati). Con numeri ridotti, anche episodi locali possono avere conseguenze d’insieme. Conclusione: fino all’ultimo momento non si può mai archiviare una elezione sulla base dei polls. 

4. Che succederà ai Governatori? Un aspetto meno spettacolare ma importante delle prossime elezioni è la contesa sui seggi dei governatori (tra cui quello di Schwarzenegger in California, repubblicano che ha raccolto il consenso di molti democratici del suo Stato). Le ragioni di questa rilevanza sono tre: ogni dieci anni, il censimento comporta che sia ridisegnata la mappa dei distretti elettorali in tutti gli Stati (come effetto della dinamica demografica); le prossime elezioni presidenziali si stanno avvicinando; l’impasse federale carica i governi statali di responsabilità maggiori di un tempo. Va aggiunta una quarta ragione: i governi statali sono un classico incubatore dei futuri presidenti. E i democratici perderanno probabilmente sei o sette Stati, inclusi alcuni che avevano conquistato solo nel 2008.

5. Un “rimpasto” alla Casa Bianca è abbastanza normale, dopo due anni, ma non senza implicazioni né conseguenze. A parte l’uscita del Gen. Jones, Consigliere per la Sicurezza (sostituito dal suo vice, Thomas Donilon), l’amministrazione ha già “perso” Rahm Emanuel (candidato a sindaco di Chicago) e vedrà la sostituzione di Larry Summers, principale consigliere economico del Presidente.  Chi succederà a Summers non è ancora deciso; una buona candidata sarebbe Laura D’Andrea Tyson (che è già stata alla Casa Bianca con Clinton) ma non è la sola. Terza sostituzione importante, attesa dopo le elezioni, l’uscita di David Axerold, il principale consigliere politico di Obama, non per responsabilità negative ma al contrario per cominciare a costruire la macchina elettorale del 2012 – compito che dopo le elezioni di novembre sarà improvvisamente alle porte. Da febbraio in poi, dopo lo “State of the Union”, non si parlerà d’altro, e Axelrod come nel 2007 sarà presumibilmente impegnato a tempo pieno a lavorare alla rielezione del Presidente; con quale ticket, è un argomento già dibattuto. [5]

Dopo il 2010
1. Difficile governare. L’esito delle elezioni non produrrà una maggioranza più solida di quella attuale. Come si è visto, è probabile che produca un “governo diviso”. Ma un successo elettorale dei repubblicani li metterebbe nella stessa situazione dei democratici oggi: si sposterebbe su di loro la pressione a produrre risultati, come in effetti avvenuto in epoca Clinton dopo la sconfitta democratica nel midterm del 1994. L’amministrazione dovrebbe compiere una scelta: tra governare con i repubblicani, pagando un prezzo a sinistra, o rimettere il Presidente in campo per il 2012 – dando battaglia sempre ed ovunque, e contando sul logorio dei suoi oppositori.

2. Focus sugli Stati. L’impasse politica a Washington metterà in risalto il ruolo degli Stati. Assieme alla polarizzazione della politica di partito, anche la geopolitica americana sta evolvendo: il contrasto tra il centro del paese e i due litorali oceanici appare consolidarsi. California, Oregon, Washington a ovest e New England (fino al nord della Virginia) a est stanno spostandosi sempre più a sinistra, gli stati del centro stanno virando sempre più a destra. Il che ha un significato preciso: l’attuazione di disegni federali non potrà più essere il risultato esclusivo di decisioni centrali, ma richiederà la costruzione di laboriose coalizioni.

3. Politica economica. C’è da aspettarsi una svolta – almeno dichiaratoria – di politica economica: la gestione attuale, chiaramente, non premia Obama. Per essere rieletto, il Presidente ha bisogno di progressi tangibili sul fronte della lotta alla disoccupazione. Ma deve anche dimostrare di riuscire a tenere sotto controllo il deficit federale.

4. L’estero comincia sul Rio Grande. La graduatoria delle preoccupazioni popolari in materia di politica estera vede la Cina in cima a tutto, poi l’Iran, poi la Russia, mentre Iraq e Afghanistan sono ormai solo problemi di politica interna, come la questione israelo-palestinese. Eppure ci si occupa poco del Messico, che è invece il rischio più immediato per gli Stati Uniti per la contiguità e il rischio che diventi un “failed state”.
L’Europa è oggi meno presente nel calendario presidenziale, per i motivi ben noti; ma in ogni caso l’Europa c’è. Manca, tuttavia, un’agenda di punti concreti, sui quali la combinazione EU-US possa fare la differenza (per esempio sulla gestione della competizione con la Cina). In mancanza di una agenda comune, sarà più difficile resistere alle pressioni protezioniste che in America sono meno velate che altrove, che la perdurante crisi economica farà aumentare, e che i democratici sono i meno adatti a contrastare.

 


[1] “Citizens United vs FEC”,  21 gennaio 2010. Vedi su questo punto anche l’articolo di Jessica Carter: Money first, sempre su Aspenia online

[2] È il titolo di un famoso volume di Arthur Schlesinger del 1973, che analizza le presidenze da Roosevelt a Nixon.

[3] Una piattaforma del “Tea Party”, dal sito web : “Non-negotiable core beliefs: Illegal Aliens Are Here illegally — Pro-Domestic Employment Is Indispensable — Stronger Military Is Essential — Special Interests Eliminated — Gun Ownership Is Sacred — Government Must Be Downsized — National Budget Must Be Balanced — Deficit Spending Will End — Bail-out And Stimulus Plans Are Illegal — Reduce Personal Income Taxes A Must — Reduce Business Income Taxes Is Mandatory — Political Offices Available To Average Citizens — Intrusive Government Stopped — English As Core Language Is Required — Traditional Family Values Are Encouraged —  Common Sense Constitutional Conservative Self-Governance

[4] Gore perse la Florida e le elezioni (ufficialmente) per 537 voti; Nader ne ebbe quasi 100,000 in quello Stato, sottratti prevalentemente ai democratici.

[5] La quarta possibile sostituzione non avverrà adesso, e sarebbe quella del Vice Presidente. Esiste una ipotesi seducente, da svilupparsi prima delle elezioni presidenziali del 2012 ed è quella di una inversione di ruoli tra Joe Biden, attuale Vice Presidente, e Hillary Clinton, attuale Segretario di Stato (carica che Biden avrebbe già accettato nel 2008, mentre H. Clinton guarda ancora a una futura presidenza).