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Nigeria: nuovo presidente, antichi problemi – e l’evoluzione di Boko Haram

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Mentre Muhammadu Buhari, il nuovo presidente eletto della Nigeria, entra in carica, il Paese ha da poco ricordato l’anniversario più doloroso della sua storia recente, ossia il rapimento delle 279 ragazze di Chibok (stato di Borno) avvenuto il 14 aprile del 2014.

Ancora oggi 219 di quelle giovani studentesse risultano scomparse, vittime, oltre che degli aguzzini di Boko Haram, anche di una propaganda governativa che ha più volte dato per imminente la loro liberazione, o dichiarato raggiunto un accordo con il gruppo terrorista per il loro rilascio. Situazioni tutte smentite dai fatti.

L’episodio di Chibok è del resto solo il più eclatante (si mosse l’opinione pubblica mondiale col celebre Bring back our girls, Michelle Obama in testa) di una strategia di rapimenti, conversioni forzate, matrimoni imposti, che Boko Haram adotta ormai da tempo come arma di lotta. Il fenomeno è ormai vasto e ha colpito soprattutto la regione del nord-est, inferendo un colpo durissimo alle popolazioni, sia dal punto di vista umano sia da quello simbolico nel rapporto tra cittadini e Stato.

Con oltre un milione e mezzo di profughi creati dall’avanzata di Boko Haram (e migliaia di vittime, se ne stimano circa 2.000 nel solo attacco alla città di Baqa all’inizio di quest’anno) la situazione umanitaria nel nord del Paese è compromessa, secondo un dettagliato allarme della Croce Rossa Internazionale.

Oltre agli assassini di massa, l’offensiva degli islamisti è particolarmente allarmante rispetto ai dati sulle violenze sessuali patite da donne (ma anche da minori e da uomini) e dalla distruzione sistematica di scuole pubbliche. Nel nord della Nigeria rimangono aperte ormai pochissime scuole private, in genere musulmane, mentre gli uffici pubblici (rappresentanti del potere centrale) sono stati chiusi a tempo indeterminato. Anche se Boko Haram fosse sconfitta nell’immediato, questi danni hanno ormai prodotto ferite profonde e durature nel tempo.

In un quadro del genere, la promessa elettorale di Buhari circa la liberazione delle ragazze di Chibok, poi smentita nelle prime interviste rilasciate dallo stesso presidente, fa temere che il nuovo corso nigeriano si troverà di fronte un cammino tutto in salita.

Forse anche per bilanciare questa debolezza, Buhari ha rilanciato ricordando come la priorità della sua agenda sarà la lotta alla corruzione rispetto alla lotta al terrore. In effetti, quello che comunemente viene indicato come il gigante africano (170 milioni di abitanti, prima economia del continente) è afflitto da un’immoralità pubblica che investe sia l’élite nigeriana composta di politici e amministratori, sia gli agenti degli interessi stranieri che in materia di corruzione accettano o addirittura promuovono nel Paese standard ben diversi da quelli occidentali. Lo slogan elettorale “Se la Nigeria non ucciderà la corruzione, la corruzione ucciderà la Nigeria” sembra quindi essersi trasformato nella prima voce dell’agenda politica di Buhari.

La Nigeria è sì un gigante, ma ben tre quarti di tutta la sua ricchezza proviene da un’unica voce: il petrolio estratto nel bacino del Delta del Niger. Due criticità rendono questo potenziale assai precario: anzitutto, il Delta del Niger è il teatro da anni di un’altra insurrezione (quella del MEND), le cui ragioni affondano nelle clamorose ingiustizie sociali dovute alla progressiva alienazione delle terre del Delta in favore degli interessi delle multinazionali straniere del petrolio. Inquinamento massiccio e assenza di ricadute economiche per le popolazioni locali sono alla base della guerriglia messa in atto da diverse sigle – la principale delle quali è appunto il MEND (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger) che intende garantire il controllo del petrolio nigeriano alle popolazioni autoctone, estromettendo dalla partita tanto le aziende straniere quanto le corrotte istituzioni centrali nigeriane.

In secondo luogo, il forte calo del prezzo del petrolio sui mercati internazionali sta causando ripercussioni sul piano interno perché, mentre non intacca gli interessi dei sodalizi corrotti, colpisce e limita le urgenze infrastrutturali e di welfare.

La vittoria di Buhari, un musulmano del nord, segna almeno una novità assoluta per la storia nigeriana: l’affermazione del candidato sfidante sul presidente uscente. Ma questo non basta ad affermare che Buhari sia un uomo nuovo per la nazione. Anzi: a parte il dato anagrafico, 72 anni, il generale ha un passato autoritario, come capo di una giunta militare negli anni Ottanta, e si candida ora ad un ruolo in democrazia essendo stato bocciato per ben tre volte dagli elettori nella corsa presidenziale: nel 2003, nel 2007 e nel 2011.

Quali siano le credenziali del nuovo presidente, oltre alle dichiarazioni d’intenti, è dunque molto difficile dire. Certo far meglio di Goodluck Jonathan non sarà complesso, ma le contraddizioni strutturali del sistema-Paese Nigeria sono sempre le stesse, e i mezzi a disposizione di Buhari, a parte una nuova squadra di ministri, saranno i medesimi: stessi quadri amministrativi, stessi interlocutori occidentali, doppia minaccia armata a nord e sud. Insomma un quadro che lascia poco spazio all’ottimismo.

Alcuni paradossi possono tuttavia essere corretti nell’immediato, cominciando col ricondurre in capo all’esercito nigeriano l’iniziativa contro gli islamisti. Nell’ultimo anno, infatti, le operazioni militari anti Boko Haram sono state svolte principalmente dalle forze del Camerun, del Ciad e del Niger (Stati i cui confini sono spesso minacciati e attaccati dal gruppo terrorista). Di certo quando si è mosso l’esercito nigeriano o ha fallito gli obiettivi o, per raggiungerli, ha mietuto vittime innocenti tra la popolazione civile, che teme ormai le rivalse delle forze regolari quanto le incursioni degli jhadisti.

Occorre quindi maggior coordinamento della forza multinazionale africana che, oltre alla Nigeria, comprende appunto le truppe di Ciad, Benin, Camerun e Niger. Contingenti ai quali, nel corso delle ultime elezioni, è stato necessario affiancare – per garantire un voto libero e parzialmente sicuro – massicce forze mercenarie provenienti da Namibia, Sud Africa, Russia ed altre aree calde del mondo. Lo scenario ormai è più minaccioso rispetto al recente passato: Boko Haram ha infatti stretto un’alleanza – di expertise e di reciproco supporto ideologico – con lo Stato Islamico nel patchwork cangiante ma temibilissimo delle sigle del terrore sparse tra Medioriente e Sahel.

Serve discontinuità politica alla Nigeria; e Buhari appare purtroppo a molti come un ritorno al passato che certo non privilegia le forze più moderne e aperte del panorama politico, che pur esistono. Si pensi a Lamido Sanusi, l’Emiro di Kano ed ex governatore della Banca Centrale Nigeriana, espressione di un Islam colto e moderato (e anche lui rappresentante del nord del Paese), capace di dialogare alla pari con le istituzioni internazionali e i vari rappresentati occidentali, noto infine per le battaglie anticorruzione che portarono alla sua destituzione dalla carica di primo banchiere.

Poiché i partner occidentali della Nigeria non hanno un sufficiente interesse diretto a un miglioramento della situazione attuale (in alcuni casi, si potrebbe anzi dire che non ne hanno alcuno), dovrà essere la Nigeria stessa a dar spazio alle proprie forze migliori per far evolvere il quadro interno in termini positivi; viceversa permarranno le enormi differenze economico- sociali, lo stallo nel Delta del Niger con il MEND, la corruzione endemica e infine la minaccia più esiziale, Boko Haram.  Da piccola setta locale questa ha ormai compiuto la metamorfosi in organizzazione del terrore regionale e non può più essere sconfitta senza un serio piano politico, militare e culturale di medio-lungo periodo.