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New York e la sintonia necessaria per vincere la presidenza

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Qualunque sia l’esito delle indagini sulle bombe artigianali trovate a New York – di cui una esplosa il 17 settembre – e sulla sparatoria in Minnesota lo stesso giorno, il clima di paura sul piano della sicurezza interna sarà un fattore politico fino al voto dell’8 novembre. È quindi importante osservare i due candidati presidenziali alla prese con episodi che hanno per ora una portata incerta e ambigua. Il caso di Manhattan ha attirato, almeno inizialmente, la maggiore attenzione mediatica e dunque è un test più diretto.

Donald Trump ha adottato uno schema consueto, ricordando subito l’esigenza per gli americani di essere “molto duri” a fronte delle minacce che, a suo parere, la presidenza Obama ha aggravato (proprio per mancanza di “durezza”). La reazione, assai affrettata quasi per prevenire le stesse autorità di New York, è simile a quella di chi impreca contro la pioggia o contro il destino: rabbia e irritazione, ma ben pochi effetti concreti, soprattutto fintanto che l’origine degli ordigni esplosivi non è appurata. È sembrata dunque un’uscita in qualche modo immatura, impulsiva e al tempo stesso strumentale – a voler approfittare di un’occasione per attaccare i soliti noti, cioè non gli attentatori quanto piuttosto il duo Obama-Hillary. Non a caso, nelle ore seguenti il tiro è stato corretto, rivolgendosi anzitutto ai feriti a seguito dell’esplosione.

Ora, è chiaro che un elettore convinto della validità del candidato Trump non cambierà facilmente opinione a seguito di quelle prime dichiarazioni a caldo, ma certo la sua immagine non migliora su un punto potenzialmente decisivo: la capacità di prendere decisioni ragionate sotto forte pressione e con informazioni incomplete.

Di contro, Hillary Clinton – anche qui, in linea con la sua personalità politica – ha avuto una reazione ben più compassata e rassicurante: ha preso tempo, indicando la priorità del momento nel pieno sostegno alle autorità locali e federali e nella messa in sicurezza della città. Una reazione dunque in stile forse “presidenziale”, ma di fatto soltanto prudente. Come tale, non dovrebbe averle conquistato nuovi consensi. Del resto, l’intera campagna dell’ex-Senatrice di New York appare ormai incentrata sull’obiettivo di non perdere voti e portare i suoi elettori a esprimersi, avendo di fatto rinunciato ad ampliare il grado di consenso.

Insomma, tutto sembra come prima, ma a ben guardare c’è un dato interessante nella vicenda di New York: la cittadinanza e le autorità hanno risposto in modo composto, cercando di mettere a frutto le esperienze (purtroppo ormai numerose) accumulate (non solo lì, ma anche alla maratona di Boston e altrove) nel fronteggiare attentati di varia matrice e di varia portata. Il Paese nel suo complesso ha maturato una consapevolezza sulle “costanti” della minaccia interna alla sicurezza: il panico va tenuto sotto controllo, le forze di polizia hanno bisogno di tutte le possibili informazioni immediate, e le misure di emergenza sono uno strumento realmente utile a limitare i danni e prevenire nuovi attacchi. In altre parole, vivere nell’incertezza, e perfino in uno stato di paura ricorrente, non deve condurre alla paralisi; in presenza di tale atteggiamento, anche la politica si sta adeguando nei toni e nelle decisioni concrete.

Da questo punto di vista, rimane il fatto che Donald Trump ha certamente colto un impulso profondo nell’opinione pubblica, cioè quello della voglia di riscatto anche attraverso la forza e l’orgoglio; ma Hillary Clinton, pur con i suoi molti limiti di candidato, è probabilmente in maggiore sintonia con la maggioranza degli americani. Quantomeno, lo è con gli abitanti della più strana e cosmopolita metropoli degli Stati Uniti, che si sta abituando a gestire la paura.