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Netanyahu, ancora una volta

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La vittoria a sorpresa del Likud di Benjamin Netanyahu nelle elezioni per la XX Knesset nasce dalla svolta nazionalista della sua campagna elettorale e preannuncia un governo all’offensiva, tanto sui temi della sicurezza che dell’economia, con iniziative destinate a lasciare il segno.

Al termine di due mesi di campagna elettorale che lo avevano visto obbligato a rincorrere i rivali del centrosinistra, braccato da sondaggi sempre negativi dovuti in gran parte allo scontento sull’economia, il premier Benjamin Netanyahu ha preso personalente le redini della campagna. Nelle ultime 96 ore a disposizione prima del voto ha chiamato a raccolta l’elettorato di destra adoperando toni, termini ed argomenti senza precedenti. Anzitutto ha promesso che con lui al governo “non nascerà mai lo Stato palestinese” previsto dagli accordi di Oslo del 1993 sui territori di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Poi si è impegnato a costruire “migliaia di case in Giudea e Samaria” – ovvero la Cisgiordania – per consolidare la presenza degli insediamenti dove già risiedono 250,000 israeliani. E infine ha assicurato che “non vi saranno più scarcerazioni di terroristi” in cambio di ostaggi. Il risultato è stato spingere verso il Likud non solo quegli elettori tradizionali che avevano scelto di disertare il voto – in segno di protesta contro le politiche economiche del Premier – ma anche buona parte dei sostenitori di forze politiche alleate, da Baiyt Ha-Yehudì di Naftali Bennett a Israel Beitenu di Avidgor Lieberman. A urne aperte, Netanyahu ha continuato tale campagna con dichiarazioni sul pericolo dovuto alla “affluenza in massa di elettori arabi ai seggi”; dichiarazioni che hanno raggiunto anche l’elettorato più apatico, scontento, scettico. È stato un pressing personale del Premier che si è accompagnato ad una macchina elettorale vecchia maniera: telefonate, sms e visite porta a porta da parte dei militanti per portare alle urne tutti i propri sostenitori. Il risultato sono stati i 30 seggi guadagnati e la possibilità di guidare una coalizione di centrodestra. Si tratta di una coalizione stabile perché composta da alleati minori, partiti religiosi e con l’inclusione anche di Moshe Kachlon, il leader del nuovo partito Kulanu che è riuscito a raccogliere lo scontento del sottoproletariato urbano del Likud alle prese con il carovita e l’impossibilità di acquistare una casa.

Sul fronte opposto, il centrosinistra di Isaac Herzog e Tzipi Livni guiderà l’opposizione forte di 24 seggi ma indebolito dalla carente performance del Meretz, il partito di sinistra che negli anni Novanta sostenne il Labour di Yizhak Rabin nel negoziato che portò agli accordi di Oslo.

La genesi della vittoria preannuncia l’azione politica del nuovo governo Netanyahu. Il Premier ha affermato: “adotteremo misure importanti su welfare e sicurezza”. Nel primo caso si tratta di andare incontro alle fasce più deboli che hanno registrato una diminuzione del potere d’acquisto con la conseguenze percezione di impoverimento progressivo. Netanyahu è intenzionato a nominare Kachlon Ministro delle Finanze, premiando il successo di Kulanu, a affidandosi a lui per varare un’ampia gamma di riforme sociali. Kachlon ha alle spalle la liberalizzazione del mercato dei cellulari, è amato dalle nuove generazioni, e dunque sarà chiamato a varare un piano di aiuti su educazione, edilizia, salute e servizi per far condividere alle famiglie più povere il boom economico della “Start Up Nation” ovvero dell’alta tecnologia che attrae con i suoi progetti miliardi di dollari in capitali stranieri.

Il fronte più delicato è quello della sicurezza. E qui per tentare di comprendere le mosse future di Netanyahu bisogna partire da Bennett, il suo maggiore alleato nonché il leader del partito che rappresenta gran parte degli insediamenti in Cisgiordania. Bennett guarda oltre la formula di Oslo dei due Stati, cercando nuove forme di convivenza con i palestinesi che si basano sulla sicurezza dei 250,000 israeliani residenti nei Territori e al contempo maggiore libertà di movimento per gli oltre 1,8 milioni di palestinesi. Il “piano” che Bennett ha presentato per annettere ad Israele le cosiddette “aree C” della Cisgiordania – quelle a pieno controllo civile e militare israeliano, secondo gli accordi di Oslo – si accompagna ad una proposta di rafforzamento dell’autonomia dell’Autorità Palestinese. È una strada che Netanyahu potrebbe far propria, puntando a coinvolgere la Giordania di Re Abdallah in un nuovo assetto di sicurezza regionale, forte del sostegno anche dell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, con cui condivide l’ostilità per Hamas nella Striscia di Gaza. Ma si tratta di una formula destinata ad essere rigettata dall’Autorità Palestinese di Abu Mazen, il cui interesse invece è di ottenere in fretta il riconoscimento della piena sovranità da parte delle Nazioni Unite. Si spiega così la reazione di Ramallah al successo di Netanyahu, quando il negoziatore palestinese Saeb Erakat ha detto “la speranza è finita”, preannunciando la presentazione alla Corte Penale Internazionale delle denunce per “crimini di guerra” proprio nei confronti di Netanyahu (per le vittime civili causate nell’estate 2014 dall’intervento a Gaza).

Dalla prospettiva degli Stati Uniti – che comunque restano un attore decisivo nella regione – si presenta ora lo scenario di un finale di presidenza Obama in Medio Oriente stretta fra le divergenti accelerazioni di israeliani e palestinesi: gli uni verso un maggiore radicamento in Cisgiordania, gli altri verso la battaglia alla Corte Penale Internazionale sulla delegittmazione di Israele.