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Negoziati transpacifici, tra blocchi contrapposti e apertura dei mercati

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Qualche passo avanti, ma ancora un rinvio: l’annuncio di un accordo, tanto atteso specialmente dal presidente Barack Obama, che sancisca la nascita del Trans Pacific Partnership (TPP) non c’è stato neppure al termine della sessione negoziale a livello ministeriale del 22-25 febbraio. Non si deve forse parlare di fallimento, stando almeno a quanto affermato nel comunicato emesso al termine della riunione in cui si accenna ad alcuni passi avanti; ma certo si comincia a dubitare che di rinvio in rinvio cambi il quadro generale in cui il TPP è maturato. Il rischio è intanto che qualcuno dei potenziali partner possa finire con lo sfilarsi o – il che è lo stesso – pretenda di imporre i propri interessi senza dare in cambio sufficienti contropartite. Corrobora questa ipotesi la constatazione che i Dodici, al termine della riunione di Singapore, non hanno formalizzato data e luogo della prossima sessione negoziale. Secondo indiscrezioni dovrebbe svolgersi a maggio, preceduta a livello di esperti da un incontro ad aprile.

È chiaro che la Casa Bianca ha sempre più fretta. Prima dell’incontro di Singapore gli americani hanno moltiplicato i meeting bilaterali e ora sembrano puntare a chiudere la partita prima delle elezioni di midterm a novembre. Le incertezze relative al TPP e le divergenze commerciali, come quelle che oppongono i due alleati Washington a Tokyo sulla protezione di taluni prodotti-chiave, generano infatti dei dubbi sulla scelta strategica di fondo compiuta dall’amministrazione Obama di un “ribilanciamento” verso l’Asia.

La situazione è tanto più insidiosa per Obama in quanto egli deve affrontare una fronda interna, rappresentata da una fetta importante del Partito democratico, che tenta di impedire la concessione del meccanismo della fast track al Congresso – e dunque di rendere molto più ardua l’approvazione della TPP. Questa mossa, guidata da una personalità politica di primo piano come il senatore democratico Harry Reid, ha provocato una tempesta a Washington, sebbene non si tratti di un attacco frontale al TPP. Ma, inevitabilmente, ha anche provocato forti preoccupazioni all’estero: l’Economist è già partito in quarta affermando che il presidente americano si arrenderà ai protezionisti che allignano nel suo stesso partito, perderà una occasione senza precedenti per contribuire alla ricchezza generale e indicherà al mondo intero che non è più l’America la patria del liberismo. Altri hanno parlato di perdita di credibilità degli Stati Uniti in Asia e di un colpo mortale non solo al TPP, ma anche all’intera operazione del Pivot to Asia.

Le difficoltà di un compromesso negoziale a livello tecnico sono ben note e lo erano fin dall’inizio. L’interrogativo principale oggi non riguarda tanto il modo di superarle quanto il dubbio che manchino i presupposti politici per farlo. In questo quadro, l’importanza della TPP (di ogni rinvio, di ogni mossa dei Paesi interessati a realizzarlo o a boicottarlo) aumenta parallelamente alla crescita del peso dell’Asia Orientale negli equilibri globali. Entrano allora in gioco fattori di diversa natura: i cascami della guerra fredda che intralciano le relazioni tra Stati Uniti e Cina; le crescenti tensioni nel Mar Cinese orientale e nel Mar Cinese meridionale; la generale tendenza preesistente alla creazione di aree di libero scambio su entrambe le sponde del Pacifico. Proprio nei giorni scorsi, sulla sponda americana, i tre amigos Messico, Canada e Stati Uniti hanno celebrato il ventennale del NAFTA presentandolo come battistrada degli accordi commerciali high standard, ma anche come blocco negoziale chiamato a dettare la linea ai partner della TPP. Altre dinamiche hanno poi effetto di distorsivi: è il caso della recrudescenza di spinte nazionalistiche in Asia, capaci non solo di mettere a repentaglio consolidate convergenze – prima tra tutte l’alleanza con gli Stati Uniti – ma anche di crearne di nuove, magari alternative.

Non meno forti sono le spinte corporative, che vanno in controtendenza rispetto alla creazione di un sovranazionale mercato unico. A queste spinte si mescolano le tentazioni isolazionistiche, che taluni vedono montare negli Stati Uniti dopo le disavventure mediorientali del passato decennio, l’annunciata fine della guerra globale al terrorismo e gli entusiasmi per la shale gas revolution. Ci sono poi la difesa delle prerogative democratiche, incompatibili con la sostanziale segretezza che ha caratterizzato finora i negoziati per la TPP, e i timori derivanti dalla cessione di sovranità che un accordo commerciale vincolante porta con sé.

Il puzzle è complicato dal fatto che gli Stati Uniti stanno giocando su troppi tavoli, ed ora potrebbe essere una cattiva consigliera la fretta di formalizzare un accordo. Il Pivot to Asia implica infatti una continuità d’azione tra diplomazia, impegno militare e penetrazione commerciale. La preminenza alla diplomazia che Hillary Clinton tentò di dare nel 2011 alla svolta asiatica mal si armonizza con la necessità di non deludere gli alleati alle prese con l’assertività della Cina.

In questo contesto complicato, il Giappone, terza economia mondiale e principale alleato in Asia, resta la prima scelta per Washington. Parallelamente alla TPP, è in corso tra i due Paesi una vera e propria maratona negoziale a livello bilaterale che però non riesce ad avere ragione degli interessi protezionistici contrapposti (riso contro automobili, in particolare). Intanto, il peso specifico del Giappone potrebbe diminuire se l’interesse per l’accordo transpacifico già dichiarato dalla Corea del Sud si trasformasse in una richiesta di adesione. In sordina, da tempo gli Stati Uniti stanno inoltre corteggiando anche Taiwan, che ugualmente si è mostrato ben disposto verso la TPP. Importante notare che Sud Corea e Taiwan sono due Paesi con profondissimi, seppure assai diversi rapporti sia con la Cina sia con gli Stati Uniti: per molti versi sono Paesi-ponte per eccellenza tra le due grandi potenze, in grado di influenzarne con le loro decisioni i rapporti. Non erano rimasti per caso fuori dal negoziato, ed ora non per caso vi rientrano.

D’altra parte è sempre il confronto con la Cina, che di questi tempi ha rapporti particolarmente intensi sia con Seul sia con Taipei, a condizionare l’intera strategia asiatica della Casa Bianca. Anche con Pechino Obama è costretto a verificare la possibilità di attuazione della TPP, e infatti non manca di sottolineare che l’accordo è aperto a tutti, compresa la Cina. Ma sui negoziati transpacifici si allunga l’ombra del RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), la free trade area su cui stanno lavorando i cinesi e che – qualora vedesse la luce – avrebbe il non piccolo vantaggio di inglobare interamente il blocco ASEAN e non solo alcuni dei paesi del Sud Est asiatico come farebbe la TPP.

La competizione nello sforzo di liberalizzare i mercati, sia pure ciascuno pro domo propria, tra Cina e Stati Uniti potrebbe avere perfino effetti positivi, ma a condizione che il vero obiettivo non sia l’esclusione dell’altro. In quest’ultimo caso si avrebbero inevitabilmente sia un aumento della tensione sia danni ai rapporti commerciali. Il problema è che l’idea della reciproca esclusione è nell’aria ed è difficile rimuoverla, in parte perché è connaturata con la gestazione stessa della TPP. Per il momento nessuna delle due grandi potenze ha avuto la capacità o la voglia di cambiare direzione; ma il 2014 potrebbe però segnare un cambiamento di prospettiva, anche perché la Cina ha assunto la presidenza dell’APEC (Asia Pacific Economic Cooperation), il cui obiettivo di massima è proprio la creazione di una mega-area di libero scambio per l’intero settore Asia Pacifico. Il fatto che la prossima sessione negoziale a livello ministeriale dei Paesi della TPP probabilmente si svolgerà a margine del Forum sul commercio organizzato dall’APEC a guida cinese, a Tsingtao, potrebbe risultare un segnale più che una banale coincidenza.