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Medio Oriente e sicurezza globale: la presidenza Trump alla prova della complessità

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Il Medio Oriente, ancor più di altri luoghi del mondo, non è né bianco né nero: il neoeletto presidente Trump dovrà velocemente impararlo. Complessità è la parola che maggiormente si addice a descrivere le identità multiple, le trame geopolitiche e le strumentalizzazioni incrociate che caratterizzano questa regione. Complessità è l’esatto contrario delle tesi semplicistiche e spesso fuorvianti sulle quali Donald Trump ha costruito, con successo, la sua campagna elettorale.

Approfondimento, osservazione e ascolto sono essenziali per provare a comprendere come funziona il Medio Oriente: la composizione della squadra di governo, con la scelta di Rex Tillerson –  presidente e CEO di Exxon Mobil, a capo del Dipartimento di Stato – in partenza solleva parecchi dubbi sulla capacità della futura amministrazione di confrontarsi con i tanti problemi mediorientali in cui, necessariamente, si imbatterà. La sensazione è che nell’America di Trump il ricorso al multilateralismo, che era stato centrale con la presidenza di Barack Obama, verrà di nuovo ridimensionato  (così come le istituzioni internazionali), in favore di un’ottica prettamente contrattuale e bilaterale delle relazioni internazionali, in cui i rapporti personali tra leader divengono l’elemento saliente del sistema delle alleanze.

La prossima amministrazione degli Stati Uniti troverà un Medio Oriente in rapida decostruzione, attraversato da tendenze sistemiche di lungo periodo. Sfide che richiedono una visione generale, a largo raggio, dei problemi e richiedono politiche altrettanto ambiziose.

Una di queste sfide è la crisi di governance che mina la legittimità interna di molti sistemi politici mediorientali e aumenta, di riflesso, il tasso di autoritarismo. Non si tratta solo dell’Egitto di Al-Sisi, costretto a tagliare i sussidi sul carburante per ottenere un prestito da 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale. Anche le stesse monarchie del Golfo sono ora obbligate a disegnare politiche economiche più sostenibili, orientate al post-oil, per sopperire alla diminuzione della rendita da idrocarburi –  direzione che proprio le politiche energetiche annunciate da Trump potrebbero perfino rafforzare.

Si registra poi il riemergere delle identità sub-nazionali, intenzionate a ridefinire gli spazi territoriali al di là dei confini politici esistenti, che erodono le sovranità degli Stati: è la seconda tendenza sistemica del Medio Oriente di oggi. Queste identità alimentano scontri su base confessionale (come per gli arabi sunniti d’Iraq), etnica (per i curdi fra Turchia, Siria e Iraq), regionale e/o tribale (per i clan dello Yemen).

In questo contesto frammentato, alcuni attori regionali stanno giocando partite geopolitiche spregiudicate. Iran, Arabia Saudita e Turchia, ma anche  la Russia come attore esterno, agiscono su crisi locali di origine politica, come Siria e Yemen, attingendo alla retorica settaria (sciiti contro sunniti nel caso di Teheran e Riyadh) o dell’anti-terrorismo (come fanno Mosca e Ankara) per promuovere, innanzitutto, ciniche politiche di potenza.

La Siria è il caso più evidente, ma non certo l’unico.

Con un ordine interno debole e dunque ad altissima “penetrazione esterna”, il Medio Oriente rimane il quadrante in cui le grandi potenze si giocano il rango internazionale. Grazie all’intervento in Siria, la Russia è uscita dall’angolo diplomatico in cui la vicenda ucraina l’aveva relegata e punta ora al cuore del Mediterraneo, con una probabile base militare in Libia. Il pivot del Medio Oriente si è inequivocabilmente spostato a est.

Questa è la realtà che Donald Trump erediterà, anche come conseguenza delle non-scelte di Barack Obama sulla Siria: prima il mancato intervento militare contro il regime, poi lo scarso appoggio all’opposizione non-jihadista. Proprio l’intesa fra Trump e Putin potrebbe consolidare questo status quo. Una pessima notizia per Israele: non solo Teheran è ormai il dominus del Levante arabo, ma gli Hezbollah possono organizzarsi nel sud siriano (Quneitra), a un passo dal Golan.

Il presidente eletto ha promesso di inasprire la lotta al sedicente Stato Islamico; ma essa non può prescindere da un proposta politica inclusiva sul futuro delle terre oggi occupate da Daesh. Che fare di quel vasto territorio fra Siria orientale e Iraq occidentale, a prevalenza arabo-sunnita, dopo l’eventuale sconfitta del “califfato”? Quale sostegno al governo iracheno, dato che i jihadisti si sono nutriti del risentimento delle tribù di Al-Anbar e Ninive verso le autorità centrali e potrebbero presto riorganizzare i loro network transnazionali sulla base di quel malcontento? Come “vincere” in un Iraq ormai nell’orbita iraniana, se l’accordo nucleare con Teheran verrà davvero messo in discussione come hanno minacciato di fare Trump e alcuni dei suoi consiglieri principali?

Se una vocazione in qualche modo isolazionista venisse confermata, il mandato di Trump alla Casa Bianca  accentuerebbe ciò che l’ultimo Obama –  con modalità e toni differenti –  aveva già delineato: la rinuncia degli Stati Uniti alle pretese di leadership globale. L’ordine internazionale già multipolare (imperniato anzitutto su USA, Cina, Russia) ne risulterebbe sempre meno di tendenza liberale.

Però, la sicurezza internazionale e la lotta a Daesh e ad Al-Qa’ida non possono fare a meno della politica, così come gli interessi economici ed energetici: la scelta di un businessman del petrolio al Dipartimento di Stato (e non di un politico o un diplomatico) dice molto dell’approccio della nuova amministrazione alla politica internazionale. Il prisma attraverso il quale gli Stati Uniti guarderanno al Medio Oriente pare oggi questo: più investimenti in alcuni settori, competizione “mercantilista” in altri,  un verosimile aumento dei contratti militari, e meno attenzione –  anche narrativa –  a libertà civili e diritti umani.

Dunque, è probabile che lo sguardo della presidenza Trump non si soffermi tanto sugli equilibri di sicurezza in Medio Oriente (ora in riposizionamento), ma sul Medio Oriente in quanto regione capace di propagare instabilità a livello internazionale,  per esempio attraverso il terrorismo di matrice jihadista e i flussi migratori incontrollati.Questo approccio di “securitization” contribuirebbe a lasciare ulteriori spazi di manovra geopolitica per le potenze sia mediorientali che esterne.

Washington sarà perciò sempre più riluttante a vestire i panni del garante esterno della sicurezza del Golfo. Per le monarchie saudite del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), la presidenza Trump potrà così avere lati positivi e negativi al contempo: in particolare, mani ancora più libere in Yemen (dove l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti combattono da quasi due anni gli insorti sciiti), ma impegno ridotto nella difesa esterna delle monarchie.

Se n’è avuto un assaggio al Manama Dialogue 2016, il Summit per la Sicurezza Regionale organizzato ogni anno dall’International Institute for Strategic Studies (IISS) in Bahrein: l’uscente Segretario USA alla Difesa, Ashton Carter, ha sollecitato Arabia Saudita e monarchie alleate a fare di più in materia di sicurezza regionale e autodifesa. Nelle stesse ore, il CCG siglava proprio a Manama un accordo strategico in tutti i campi (compresa la difesa) con il Regno Unito, ansioso di valorizzare le sue rotte commerciali in vista del dopo-Brexit.

Ormai, Riyad sa bene che dovrà sempre più provvedere autonomamente alla propria difesa, sia in termini di interessi nazionali che di stabilità della Penisola arabica: ciò inserisce un elemento di ulteriore imprevedibilità nel quadrante. Sommando i limiti militari sauditi al progressivo disimpegno statunitense dal Medio Oriente, l’eventuale ridiscussione dell’accordo sul nucleare iraniano ventilata da Trump non conviene neppure all’Arabia Saudita, che l’aveva tanto osteggiato.

Infine, c’è una questione, finora rimasta in ombra, con la quale la prossima amministrazione  statunitense potrebbe essere costretta a confrontarsi, anche per ragioni economico-commerciali: la sicurezza marittima e la libertà di navigazione lungo i choke-points vitali che circondano il Golfo. Si stanno infatti moltiplicando gli episodi che sfidano gli equilibri marittimi: schermaglie a Hormuz tra navi iraniane e statunitensi, lanci di missili dalle coste yemenite verso navi USA ed emiratine nello stretto del Bab-el-Mandeb, probabile ritorno della pirateria fra Golfo di Aden e coste somale (la missione della Nato si è appena conclusa).

La libertà di navigazione non riguarda solo gli Stati Uniti come potenza navale, ma chiama indirettamente in causa la sicurezza degli alleati – che a sua volta, almeno nel medio e lungo termine, è sempre stata considerata precondizione della sicurezza stessa di Washington. La sfida della presidenza Trump in Medio Oriente sta dunque nel perseguire alcuni tradizionali obiettivi americani senza fare ricorso ai classici strumenti delle alleanze stabili, con i relativi costi. Una sorta di scontro con la complessità.