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L’Ungheria di Viktor Orbán: una deriva autoritaria?

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L’Ungheria è guidata dall’aprile del 2010 da un governo monocolore formato dal Fidesz-Kdnp di Viktor Orbán, che alle ultime elezioni politiche ha conquistato, con il 67,9% dei consensi, 262 seggi su 386: una maggioranza sufficiente a modificare la Costituzione. Una possibilità che il leader conservatore ungherese non si è lasciato sfuggire.

Viktor Orbán, tra i protagonisti del processo di transizione del 1989, ha saputo ritagliarsi, negli anni, il ruolo di custode della nazione ungherese e di sostenitore delle minoranze magiare, costrette dalle “ingiustizie della storia” nei confini dei paesi limitrofi (Slovacchia e Romania in particolare). Sconfitto nelle elezioni del 2002, dopo esser stato al governo per quattro anni, ha incentrato la sua azione politica su una campagna populista di discredito dei governi socialisti, delle istituzioni europee e delle comunità straniere. Orbán ha saputo cavalcare lo scontento dell’opinione pubblica, preoccupata anche per i problemi economici del paese (tra il 2002 e il 2009 la crescita del PIL è passata dal 4,5% al -6,8%, mentre la disoccupazione dal 5,8% al 10%), e oggi è l’emblema dell’ondata nazional-populista che si sta propagando in Europa.

Le elezioni del 2010 hanno portato in parlamento anche una formazione di estrema destra,  Jobbik (Movimento per un’Ungheria migliore), fondata nel 2003 e spalleggiata da un gruppo paramilitare, la Nuova Guardia Magiara: con il 12,2% dei voti è la terza forza politica del paese. Il leader Gábor Vona si rivolge in particolar modo alle minoranze magiare presenti nei paesi confinanti, avanzando pretese irredentiste, e conduce una battaglia contro la comunità rom presente in Ungheria, da egli considerata violenta e parassita. La cittadina di Gyöngyöspata, eletta da Jobbik a laboratorio contro la “criminalità zingara”, è stata teatro nella primavera del 2011 di scontri violenti tra i seguaci del movimento di Vona e la comunità rom locale (circa un quinto degli abitanti): la Croce Rossa ha dovuto evacuare parte della popolazione, vittima delle “attenzioni” dei militanti di estrema destra. Alle successive elezioni amministrative il candidato di Jobbik è stato eletto sindaco.

Il dominio politico della destra è favorito da un’opposizione non più credibile e non all’altezza della situazione. Il partito socialista, dopo otto anni di governo contraddistinti da scandali clamorosi e difficoltà economiche, alle ultime elezioni ha ottenuto un 15,3% di consensi  che lo relega al ruolo di comparsa parlamentare (59 deputati), oltre a costringerlo a difendersi dalla criminalizzazione operata dalla maggioranza (il parlamento ha recentemente revocato l’immunità all’ex-primo ministro, accusato di abuso di potere e danni allo Stato).

L’opposizione politica è nelle mani dei sindacati e della società civile che, recentemente, hanno dato vita a due partecipate manifestazioni di piazza. I primi, con l’evocativo nome di “Szolidàritas” (in ricordo di Solidarność), hanno protestato l’1 ottobre contro le restrizioni dei diritti sindacali, il mancato dialogo sociale e il nuovo codice del lavoro proposto dal governo. Una seconda manifestazione, promossa soprattutto online e con il passaparola, si è svolta il 23 ottobre, nell’anniversario della rivoluzione del 1956, per protestare contro la nuova legge sull’informazione, al grido di “questo regime non ci piace”. La filosofa ungherese Agnes Heller ha definito il governo Orbán un “bonapartismo autoritario”: un sistema che mira all’epurazione e alla marginalizzazione del dissenso, piuttosto che alla sua soppressione, fondato su valori come nazione, famiglia e religione cristiana

Il Fidesz infatti ha approvato i provvedimenti che più scuotono l’equilibrio democratico ungherese con la sua semplice maggioranza parlamentare e senza il coinvolgimento delle opposizioni. In primo luogo la legge sull’informazione, entrata in vigore a luglio. Vi si istituisce un’Autorità nazionale delle telecomunicazioni, il cui vertice è di nomina governativa, che ha la facoltà di sanzionare i media in caso di diffusione di informazioni che violino l’interesse pubblico. Le redazioni dei notiziari delle testate pubbliche sono sostituite da un’unica newsroom che fornisce notizie uniformi a tutti i mezzi di informazione statali. L’approvazione di questa legge ha coinciso con centinaia di licenziamenti tra i giornalisti, ufficialmente per ragioni economiche.

Inoltre, la nuova Costituzione, varata nel giro di pochi mesi. Approvata il 18 aprile e firmata dal Presidente della Repubblica il 25 aprile (nel giorno di Pasqua, a simboleggiare la resurrezione della nazione magiara), entrerà in vigore l’1 gennaio 2012, ma ha già provocato numerose polemiche e ha suscitato reazioni contrarie da parte di Ong come Human Rights Watch, organizzazioni internazionali e istituzioni europee.

La Commissione di Venezia l’ha criticata nel suo parere ufficiale (n° 621/2011), reso noto il 20 giugno, e, il 5 luglio, il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione in cui invita il governo ungherese ad affrontare le questioni sollevate dalla Commissione e a garantire il rispetto, anche con interventi correttivi, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, già sottoscritte dall’Ungheria, e la conformità della nuova Carta all’acquis comunitario.

Nel testo si riscontrano numerose criticità e passaggi ambigui che traggono origine dalla mitologia magiara sul passato e dai tanti riferimenti valoriali e religiosi, e che generano perplessità sul futuro assetto istituzionale dello stato. A partire dal Preambolo, infatti, il testo fa riferimenti espliciti a Santo Stefano, alla Sacra Corona e alla collocazione del paese nell’Europa Cristiana, al ruolo del cristianesimo nel preservare la nazionalità magiara, alla famiglia e alla nazione come strutture principali della coesistenza del paese, e infine si impegna a preservare l’unità intellettuale e spirituale della nazione “devastata dalle tempeste del secolo scorso”.

I temi del Preambolo sono poi esplicitati nell’articolazione della Costituzione. L’articolo D, tra i Principi Fondamentali, stabilisce che l’Ungheria è responsabile delle comunità magiare che vivono oltre confine e si impegna per promuovere la loro salvaguardia e il loro sviluppo. Questo articolo e la nuova legge secondo cui anche i magiari stabiliti all’estero, che si dichiarino di identità ungherese, possono avere la cittadinanza, pongono seri interrogativi sulle ambizioni irredentiste del governo di Budapest e, sopratutto, su eventuali ingerenze nelle questioni interne agli stati limitrofi.

L’impronta cristiana caratterizza i valori di riferimento: l’articolo L ribadisce che la famiglia è a fondamento dello stato e riconosce il matrimonio tra uomo e donna come un’istituzione da proteggere, l’articolo II sancisce il diritto alla vita dal momento del concepimento, garantendo protezione all’embrione e al feto, mentre l’articolo XV nella disposizione dei principi di uguaglianza esclude l’orientamento sessuale. È evidente il potenziale discriminatorio insito in queste disposizioni.

Si teme anche per uno squilibrio dell’assetto istituzionale dello stato: il potere legislativo potrebbe essere limitato dalle prerogative di un organismo non democraticamente eletto, quale il Consiglio di Bilancio: se questo esercitasse il suo diritto di veto sull’adozione del bilancio generale da parte dell’Assemblea Nazionale, il Capo dello Stato avrebbe la facoltà di sciogliere il parlamento. Inoltre, la Carta sancisce la necessità di una maggioranza dei due terzi dei deputati non solo per le modifiche legislative fondamentali, ma anche in materia di diritti, sistema fiscale, pensioni, diritto familiare e altre questioni di natura ordinaria. In tal modo, la Costituzione scritta da un solo partito vuole mettere in sicurezza il nuovo assetto politico.

Il governo Orbán in pochi mesi è riuscito a imprimere una svolta conservatrice e autoritaria alla politica ungherese: ciò pone un serio problema di coesistenza politica all’Unione Europea, che mal dovrebbe tollerare “lacune” sul fronte dei diritti civili e sociali e sui principi democratici in uno Stato membro, in aperta violazione dei Trattati e del diritto comunitario.