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L’ultimo dibattito e la convergenza in politica estera

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Questi ultimi giorni di campagna elettorale per la presidenza americana vedono la politica estera più in alto nella classifica dei temi caldi, sebbene non in cima alle priorità degli elettori. Il dibattito finale Obama-Romney ha fatto ben emergere – come il precedente del 16 ottobre su questioni anche sociali ed economiche – il tentativo di occupare il centro “moderato” dello spettro politico. Un tentativo che ha creato alcune difficoltà a entrambi i candidati: il presidente ha cercato di dipingere l’avversario Repubblicano come una sorta di clone di George W. Bush proprio mentre Mitt Romney annunciava scelte internazionali molto simili a quelle dell’amministrazione Obama. Da parte sua, Romney si è sforzato di criticare le politiche del presidente mentre prometteva sostanzialmente di perseguirle egli stesso, ma con più vigore. L’esito è stato piuttosto curioso da una prospettiva puramente intellettuale; ma non è la coerenza intellettuale che fa vincere le elezioni.

C’è forse un unico punto nel quale gli elettori-telespettatori possono aver visto un’anticipazione dei due scenari di una futura presidenza democratica o repubblicana: il modo in cui i candidati hanno incorporato le questioni internazionali nella loro rispettiva “visione” politica. Per quanto infatti l’elettore medio (o lo stesso presidente americano) non si appassioni degli eventi internazionali, la realtà è che gli Stati Uniti – parafrasando Leon Trotsky – non possono mai disinteressarsi del resto del mondo, perché il resto del mondo si interessa comunque a loro. È stato così per l’assassinio dell’ambasciatore Stevens lo scorso 11 settembre a Bengasi: il capitolo libico era “chiuso” (con una vittoria occidentale), e invece l’America ha subito un colpo inatteso. Altrettanto può dirsi per lo storico rapporto di alleanza con Israele: mentre si stanno valutando i possibili sviluppi delle sanzioni contro l’Iran, che finalmente sembrano funzionare, il governo Netanyahu preme perché  sul programma nucleare clandestino Washington definisca una precisa “linea rossa” che farebbe scattare una risposta coercitiva. In sostanza, i conflitti di quella regione sono sempre in grado di costringere l’America a fare scelte che vorrebbe evitare o rimandare.

Perfino il tema della Cina – il più macroscopico per cercare differenti posizioni tra i due candidati – sembra una questione di paziente e accorta gestione ma non (almeno non ancora) un drammatico intreccio di interessi e passioni.

La presunta “debolezza” della politica estera dell’amministrazione in carica è stata infatti collegata dal candidato repubblicano soprattutto alle vicende mediorientali. Obama ha oggettivamente mantenuto una delle cruciali promesse del 2008 nell’accelerare l’uscita delle forze di terra americane dalle due guerre di Bush, in Iraq ma anche in Afghanistan. Il problema è che nel frattempo è saltato il vecchio equilibrio che teneva (quasi) sotto controllo il Medio Oriente, aprendo la strada a “transizioni” politiche che sono per molti versi soltanto all’inizio. Washington ha tenuto una posizione sostanzialmente attendista, soprattutto nel caso finora più complicato, cioè quello siriano. Ma le difficoltà per qualunque attore esterno nel valutare le tendenze in atto sono evidenti: la persistente debolezza dei nuovi governi nei paesi che hanno abbattuto i precedenti regimi lascia spazio alla penetrazione di cellule e movimenti estremisti: ciò vale senza dubbio per l’incarnazione magrebina di al Qaeda (AQIM) e in particolare le sue ramificazioni libiche, come anche per il gruppo che fa base nello Yemen per agire nell’intera penisola Arabica. Il fenomeno si è ora allargato al Mali, confermando che, sebbene ogni paese faccia caso a sé, esiste un reale problema di contagio regionale. Difficile allora immaginare un singolo approccio generale che si adatti a tanti contesti diversi. In altre parole: Obama non ha trovato la formula per esercitare una vera leadership americana di tipo tradizionale, ma forse la formula non esiste.

L’esito imprevedibile delle transizioni arabe, rendendo le sfere di influenza nell’intera regione più labili e mobili che in passato, si collega poi con il futuro dell’Iran. Qui il paradosso – di cui è quasi certamente ben consapevole il team di Obama, e forse meno quello di Romney – è che sarebbe davvero il momento di cercare nell’Iran un partner pragmatico per gestire parte di questa complessiva instabilità. Certo, è indispensabile (e ad oggi difficile) che il regime di Teheran accetti rapidamente dei compromessi sulla questione dell’arricchimento dell’uranio e faccia qualche passo per abbassare il tono ideologico della sua politica estera; ma l’ipotesi non è strategicamente assurda, e non si vede comunque come una linea ancora più intransigente su qualsiasi forma di negoziato possa favorire gli interessi regionali degli Stati Uniti. Non a caso, del resto, lo stesso Romney ha dovuto di fatto spostare l’enfasi dall’opzione militare (lasciata sullo sfondo, proprio come da Obama fin dal suo insediamento) a un ulteriore inasprimento delle sanzioni.

È chiaro che, a due settimane dal voto,  Barack Obama mantiene un vantaggio sul terreno della politica estera, in parte perché è il Commander-in-Chief che ha eliminato Osama bin Laden, e  in parte per la grande vaghezza di alcune prese di posizione dello sfidante – compreso il concetto di un’America “forte” come strumento di pace, che contrasta con la fase di relativa introversione e di difficili scelte fiscali in cui si trova il paese. È esattamente da questo punto di vista che la linea presentata dal presidente è parsa più coerente con le grandi tendenze globali, con i limiti economici di cui anche la superpotenza americana deve tenere conto, e con il consenso nazionale a dir poco incerto che si registra per ulteriori impegni politico-militari all’estero.

Molti osservatori hanno (correttamente) notato che la politica estera non è quasi mai in grado di spostare voti in modo decisivo, ma questa valutazione va inserita nel contesto specifico del voto del 6 novembre: se davvero siamo di fronte a un testa a testa, come i sondaggi indicano, allora ogni voto può contare molto ed essere perfino decisivo negli swing state.

Cos’è dunque che può far pendere la bilancia? La riposta è ovvia, ma importante: qualunque fattore, compresa la performance sui temi di politica estera, che – non va dimenticato – puntano i riflettori direttamente sulla capacità dei candidati di prendere decisioni su questioni come la guerra e la pace sotto la pressione degli eventi. In conclusione, è possibile che proprio il dibattito meno interessante per l’americano medio lasci il segno decisivo nella memoria di quei famosi elettori indecisi su come votare, o che devono ancora scegliere se andare affatto a votare.

 

Video: L’ultimo dibattito presidenziale, commento di Roberto Menotti, ospite di Sky News 24 >>

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