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L’oleodotto Keystone XL e i rapporti di Obama con la galassia “verde”

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Fin dal 2008, quando fu presentato dalla società TransCanada (con base a Calgary, in Alberta), il progetto dell’oleodotto Keystone XL ha incontrato la fiera opposizione dei gruppi ambientalisti, vicini al blocco democratico e sostenitori delle due campagne del presidente Obama. L’oleodotto, lungo quasi tremila chilometri per oltre cinque miliardi di dollari di spesa, attraverserà il confine di stato tra Canada e Stati Uniti e da Alberta, in Canada, per portare “petrolio non convenzionale” nelle raffinerie del Golfo del Messico. 

Dopo uno stop iniziale al progetto, l’amministrazione ha tentato di quietare le polemiche su sicurezza energetica e ambientalismo, rallentando l’iter decisionale. Ma il placet da parte del dipartimento di Stato dello scorso marzo e l’attesa per la decisione finale di Obama, prevista per fine anno, hanno riacceso le proteste. Intanto alla Camera, la maggioranza repubblicana ha approvato un disegno di legge, dal valore più che altro simbolico, che non renderebbe più necessario l’intervento del presidente. Insomma, la questione Keystone ha assunto le sembianze di un test per la politica democratica sul cambiamento climatico, con possibili risvolti anche sulle elezioni di medio-termine dell’anno prossimo.

La quantità di petrolio non convenzionale che sarà trasportato dal Canada al Golfo del Messico è impressionante: 700 mila barili al giorno – a cui si aggiungono i 450 mila barili quotidiani di shale oil (considerato la nuova frontiera dei petroli derivati) che saranno trasportati lungo altri percorsi. Di petroli derivati è pieno il North Dakota, ancora per poco terra di pascoli e nativi indiani a causa dell’intensità con cui viene lavorato.   

Le tar sands canadesi assieme allo shale oil e il gas metano, che si estraggono dalle terre argillose grazie alla tecnica del water-fracking e del super-fracking, rappresentano un’innovativa e redditizia conquista energetica, in grado di ridurre drasticamente l’uso del carbone (impiegato per lo più nelle centrali europee in controtendenza rispetto all’industria fossile americana). D’altronde Obama lo aveva annunciato, nel 2011, nella sua strategia energetica “All of the Above”: occorre investire in petrolio americano, aumentare la produzione del 15% – anche grazie allo shale oil e al gas di cui gli Stati Uniti stanno divenendo esportatori, sfidando Russia e paesi arabi – e ridurre di un terzo la dipendenza dal petrolio straniero entro il 2020.

Il petrolio trasportato attraverso Keystone – quello che gli ambientalisti definiscono “il più sporco del mondo” – permette inoltre di non ricorrere al greggio proveniente da paesi instabili come il Venezuela e i fornitori medio orientali.

Ma gruppi ecologisti come Sierra Club e 350.org, assieme ad una nutrita opposizione composta di parlamentari, esponenti del mondo della cultura e anche delle istituzioni – come il fisico James Hansen, dimissionario dalla presidenza del Goddard Institute della NASA dopo essere stato arrestato per le proteste anti-Keystone davanti alla Casa Bianca – sostengono che il processo di estrazione delle tar sands è persino più nocivo della trivellazione, e che l’oleodotto incrementerebbe in misura rilevante l’emissione di CO2, oltre al rischio di inquinamento delle falde acquifere.

Nel dibattito-scontro tra ambientalisti e Casa Bianca si sono inseriti anche i sindacati, alcuni dei quali hanno manifestato il loro favore al progetto già dall’inizio, sostenendo che il maxi oleodotto impiegherebbe migliaia lavoratori del settore. Secondo la AFL-CIO, Keystone porterebbe addirittura 125 mila posti di lavoro all’anno almeno durante la fase di costruzione del tubo.

Finora l’amministrazione Obama ha cercato di destreggiarsi tra i due fronti in campo. Nel gennaio 2012, quando la Casa Bianca ha respinto una prima richiesta di autorizzazione avanzata da TransCanada in ragione del fatto che il tracciato dell’oleodotto avrebbe potuto mettere a rischio un’area ecologicamente sensibile in Nebraska. Dopo aver  invitato la compagnia a rivedere il progetto, l’amministrazione Obama si è poi impegnata a prendere una decisione definitiva sul nuovo tracciato di Keystone entro la fine di quest’anno.

Diversi elementi suggeriscono che Obama approverà il progetto. Innanzitutto c’è la valutazione del dipartimento di Stato, seppure contestata duramente dall’Environmental Protection Agency, (l’agenzia per la protezione dell’ambiente) alla cui guida Obama ha nominato Gina McCarthy, apprezzata dagli ambientalisti ma in questi giorni al centro di un difficile processo di nomina al Senato. Per il dipartimento di Stato, che si è espresso sul tema a marzo, l’oleodotto non avrebbe un impatto significativo sul riscaldamento globale. A influire sul benestare di Obama vi sarebbe poi l’orientamento dell’opinione pubblica, che secondo un sondaggio pubblicato ad aprile dal Pew Research Center, sarebbe per due terzi a favore di Keystone. Da non sottovalutare, inoltre, è l’impatto di una bocciatura sui rapporti degli Stati Uniti col Canada, un alleato-chiave di Washington innanzitutto dal punto di vista commerciale.

Ma un’eventuale approvazione, lungi dall’archiviare l’affare Keystone, potrebbe generare ripercussioni politiche significative durante le elezioni di midterm dell’autunno  2014. I grandi donatori democratici dall’animo ambientalista minacciano infatti di chiudere i cordoni della borsa ai candidati che appoggiano l’oleodotto: Keystone, dicono, sancisce il tradimento dell’impegno di Obama a contrastare con fermezza il riscaldamento globale durante il suo secondo mandato.

Emblematico è il caso di Tom Steyer, un ex-hedge fund manager dalla ricchezza netta stimata attorno a 1.4 miliardi di dollari che, dal 2010, ha speso milioni di dollari nelle campagne contro il cambiamento climatico. Per i Democratici pro-Keystone, il Massachusetts è stato fra i primi banchi di prova, a livello elettorale, della potenza di fuoco degli ambientalisti: attraverso la super PAC (organizzazione per il finanziamento delle campagne elettorali) chiamato  NextGen, Steyer ha investito circa 400mila dollari nella campagna per le primarie del deputato democratico Ed Markey, in lizza contro il collega di partito Steve Lynch in vista delle elezioni suppletive per il seggio al Senato del neo-segretario di Stato John Kerry. Ora che Markey, candidato dell’establishment democratico (e, al contrario del suo competitor, strenuo oppositore dell’oleodotto), è uscito vincitore dalle primarie, gli ambientalisti si preparano a sostenerlo anche contro il Repubblicano Gabriel Gomez, che in linea col suo partito è invece a favore dell’approvazione di Keystone. Meno fortunata è stata l’incursione di Steyer in South Carolina, dove il tycoon appoggiava la Democratica Elizabeth Colbert Bush contro l’ex governatore repubblicano Mark Sanford, uscito vincitore dalle urne (malgrado la sua reputazione fosse macchiata da uno scandalo sessuale).

Oltre allo sfoggio di muscoli dei grandi donatori green, un altro sintomo dell’incrinatura del fronte democratico sono le frizioni tra i gruppi ambientalisti e Organizing for America, l’organizzazione fondata all’indomani della prima elezione di Obama per mobilitare la base democratica attorno all’agenda del presidente. Gli attivisti di CREDO Action e 350.org, tra gli altri, puntano il dito contro quella che giudicano un’incoerenza da parte di OFA: nonostante la lotta contro il riscaldamento globale sia tra i punti-chiave dell’organizzazione, ritengono che il gruppo non stia facendo pressioni su Obama per respingere Keystone. Un’incoerenza che CREDO Action ha voluto punire invitando sui tre milioni di membri a protestare alle riunioni di OFA.

Se Keystone dovesse passare, è possibile che Obama, per non alienarsi del tutto il fronte ambientalista, leghi l’approvazione dell’oleodotto a misure-chiave in campo ambientale, per esempio sul fronte delle energie rinnovabili e delle norme sugli impianti energetici. È da vedere tuttavia se queste concessioni potranno placare le ire degli ambientalisti, per i quali Keystone è un tassello di proporzioni storiche, non solo per la salvaguardia del pianeta ma anche nei loro rapporti col presidente.