La decisione di Barack Obama di sbloccare anni di empasse legislativa in tema di immigrazione ha vaste implicazioni. L’intervento è giunto per mezzo dell’Executive Order annunciato lo scorso 20 novembre, appena dopo che le elezioni di midterm avevano assegnato ai Repubblicani una netta maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Gli effetti immediati saranno significativi sulla vita di circa quattro milioni di immigrati irregolari, che si stima siano quasi la metà del totale presente in territorio americano. È però fondamentale comprendere anche le ripercussioni elettorali, politiche e legislative, di questa mossa della Casa Bianca.
Già nel primo mandato, l’amministrazione Obama aveva tentato di dare una soluzione parziale al problema attraverso il sostegno al DREAM Act: il disegno di legge cercava di farsi strada in Congresso fin dal 2001 e prevedeva la regolarizzazione di giovani undocumented che, tra gli altri requisiti, avessero servito nelle forze armate o frequentato un’università per almeno due anni. Ma è soprattutto dopo il 2012 che la pressione di Obama sul Congresso si è intensificata, di pari passo con l’insistenza con cui alcuni settori della coalizione elettorale vicina al Presidente gli hanno chiesto di tener fede alle promesse elettorali. Dopo quelle elezioni per la Casa Bianca, infatti, l’associazionismo impegnato nel settore, la sinistra del Partito Democratico e soprattutto la comunità latina – circa l’80% degli irregolari sono ispanici – hanno fatto pesare il loro ruolo nella rielezione di Obama. Ma hanno anche denunciato l’apparente paradosso di una amministrazione che da un lato rifletteva – nei suoi programmi e nella sua stessa composizione – la crescente diversità demografica e culturale dell’America contemporanea, e dall’altra si segnalava per i suoi risultati assai mediocri in tema di riforma alle leggi sull’immigrazione e addirittura per il numero record di espulsioni (nella primavera 2014 la cifra aveva superato i due milioni, più di quanto avesse fatto George W. Bush in otto anni).
Questo apparente paradosso era in realtà il risultato del caratteristico approccio dell’attuale Presidente. La Casa Bianca aveva puntato le sue carte su una riforma complessiva e bipartisan del sistema basata su due binari: da un lato l’intensificazione del contrasto all’immigrazione clandestina che passa attraverso il Rio Grande, e dall’altro l’apertura di canali alla regolarizzazione che potessero anche portare, dopo un processo graduale e selettivo, all’ottenimento della cittadinanza. Questo impianto aveva ispirato il progetto di riforma approvato dal Senato nel 2013 anche grazie al sostegno di leader repubblicani come John McCain, Lindsay Graham e Marco Rubio. Tale disegno di legge finì, però, per arenarsi alla Camera per l’opposizione dei settori più conservatori del GOP. Ne è conseguito uno stallo protrattosi per circa un anno, parte della più generale paralisi del Congresso che ha portato anche allo shutdown e al rischio di default dell’ottobre 2013, momento culminante della iper-polarizzazione di questa fase storica della vita politica americana.
Stretto tra l’impossibilità di raggiungere una soluzione condivisa e le pressioni di parte del suo elettorato e in particolare della comunità ispanica (ormai con il potere di condizionamento tipico dello swing group), Obama ha quindi finalmente scelto di avvalersi delle proprie prerogative di capo dell’esecutivo e, con l’Executive Order di novembre, è intervenuto sui tempi e sulle modalità con cui il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale procede alle espulsioni. Grazie alla possibilità di ottenere un permesso di soggiorno rinnovabile della durata di tre anni saranno esentati da questa sanzione in primo luogo i genitori di minori che siano cittadini americani o siano in possesso di una green card, a condizione che vivano negli Stati da almeno cinque anni. In secondo luogo, saranno esentati coloro che sono entrati negli Stati Uniti prima del 2010 e che al loro ingresso non superassero i 16 anni di età. Al contempo, verranno ulteriormente rafforzate le misure di controllo alla frontiera con il Messico e accelerate le espulsioni di irregolari colpevoli di reati penali.
Per quanto ampiamente annunciata, questa decisione sta producendo reazioni intense e ramificate, le cui conseguenze ultime sulla scena politica sono al momento difficilmente prevedibili. In un messaggio alla nazione trasmesso in diretta televisiva in prima serata, Obama ha citato la Bibbia, ha attinto a piene mani al topos dell’America “nazione di immigrati,” ha ricordato che Presidenti di entrambi i partiti hanno intrapreso iniziative analoghe in passato, e infine ha scelto i toni rassicuranti del buon senso: l’America espelle i criminali, non coloro che contribuiscono alla ricchezza del Paese e non desiderano altro che integrarsi pienamente nella comunità nazionale. E in ogni caso l’espulsione di undici milioni di irregolari è tecnicamente irrealistica.
Se era scontato il sostegno a queste misure da parte dei leader democratici in Congresso, Nancy Pelosi e Harry Reid, lo era meno quello di Hillary Clinton, molto attenta a non assumere posizioni imprudenti e a evitare di essere identificata con un Presidente impopolare in vista delle elezioni del 2016. Secondo i dati di un rilevamento Gallup, l’iniziativa presidenziale è stata accolta con favore dall’elettorato nero (68% di favorevoli contro 24% di contrari) e naturalmente da quello ispanico (64% contro 28%), ma non ha convinto l’elettorato bianco (41% contro 51%). È lecito ipotizzare che i Democratici potrebbero avere difficoltà crescenti nel continuare a tenere insieme una colazione di settori non residuali dell’elettorato bianco, minoranze e nuovi immigrati. D’altra parte, l’accelerazione impressa da Obama rappresenta una sfida soprattutto per il Grand Old Party (GOP), impegnato nel difficile esercizio di opporsi a quella che viene definita una intollerabile “amnistia” di massa senza alienarsi ulteriormente il voto delle minoranze e in particolare quello ispanico – che nelle elezioni del 2012 aveva scelto nettamente Obama (solo il 27% aveva votato Mitt Romney) e che anche nelle recenti elezioni di midterm si è orientato verso i candidati democratici (62% contro il 36% per i Repubblicani).
Non a caso l’attacco frontale all’Executive Order è stato declinato sul tema degli eccessi del potere esecutivo e della violazione dell’equilibrio tra poteri, cioè uno dei pilastri della democrazia americana. Nel breve periodo l’enfasi sul carattere unilaterale del decreto presidenziale più che sui suoi contenuti consente ai Repubblicani, in primo luogo, di attuare una opposizione radicale (che va dalla minaccia di privare il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale dei fondi necessari per funzionare all’accusa di incostituzionalità) pur evitando di assumere posizioni e toni che potrebbero essere visti come “nativisti” e rivelarsi controproducenti alle prossime elezioni presidenziali. In secondo luogo, permette al GOP di inserire questa mossa in una strategia più ampia e di sicura efficacia: l’opposizione al big government, a un esecutivo ritenuto sempre più invadente e pericoloso per le libertà individuali come per i “diritti degli stati,” di cui il liberal Obama sarebbe la rappresentazione classica e la riforma sanitaria (l’Affordable Care Act) l’esito più nocivo.
Nel medio-lungo periodo, tuttavia, la leadership del GOP dovrà affrontare il difficile compito di riconciliare le varie posizioni, anche molto diverse tra di esse, che esistono all’interno del partito. A livello di proposte politiche, gli orientamenti vanno dalla disponibilità di autorevoli senatori a una riforma complessiva della legislazione che preveda anche il cosiddetto path to citizenship (la possibilità per gli immigrati oggi senza documenti validi di arrivare un giorno a ottenere anche la cittadinanza), fino all’insistenza degli esponenti legati al Tea Party sull’espulsione di tutti gli undici milioni di irregolari presenti sul territorio nazionale.
In questo quadro appare assai ardua per il GOP la formulazione di una narrativa capace di sintetizzare da un lato gli umori diffusi tra l’influente ala conservatrice del partito e dall’altro il richiamo a figure unificanti come Ronald Reagan. L’intervento legislativo voluto proprio da Reagan, l’Immigration Reform and Control Act del 1986, diede vita alla più massiccia ondata di regolarizzazione della storia americana ed è visto tutt’oggi come possibile modello per una riforma comprensiva e bipartisan delle norme sull’immigrazione. I compromessi interni necessari per recuperare quella tradizione politica saranno una sfida durissima per i Repubblicani.