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L’ISIS e la crisi di identità della politica estera giapponese

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Il rapimento di due ostaggi giapponesi da parte dell’ISIS, e la loro brutale uccisione il 24 e  30 gennaio scorsi, ha contribuito a riaccendere il dibatitto sulla politica estera in Giappone. La crisi degli ostaggi ha rappresentato un’opportunità per il Primo Ministro Shinzo Abe e per il suo governo di accelerare il processo di normalizzazione della politica estera e di difesa, ovvero il progressivo superamento dell’identità pacifista post-bellica.

La strategia di Abe è duplice. Nel suo discorso più recente di fronte alla camera bassa della Dieta giapponese ha invocato “un profondo dibattito per promuovere la più grande riforma costituzionale dai tempi della guerra”. Il punto focale delle riforme proposte da Abe è inevitabilmente l’Articolo 9 della Costituzione post-bellica, ovvero la clausola che impone al Giappone di rinunciare alla guerra come strumento della politica e, almeno in teoria, non possedere un esercito.

È chiaro che il dibattito in corso tocca temi sensibili come la memoria storica del periodo bellico, il ruolo della generazione che ha subito il conflitto, il ruolo dell’occupazione americana e dell’inviolabilità politica della Costituzione imposta dagli Stati Uniti.

I cambiamenti di rotta più importanti dal punto di vista strategico e diplomatico tuttavia non verranno da una modifica, in effetti improbabile, dell’Articolo 9. La stessa Costituzione giapponese prevede soglie troppo alte anche per la maggioranza molto ampia che sostiene il governo Abe. Le modifiche più importanti sono assai più probabili nel progressivo superamento di limiti legali diversi da quelli costituzionali o da re-interpretazioni dello stesso Articolo 9.

In particolare, Abe sostiene da tempo la piena legalizzazione della collective self defense, ovvero la possibilità di difendere un Paese alleato sotto attacco diretto.[1] Gli altri passi fondamentali sono stati la creazione di un Consiglio di Sicurezza Nazionale, che accentra il controllo della politica estera e di difesa, l’appovazione di una legge sul segreto di Stato, e l’approvazione della prima Strategia di Sicurezza Nazionale giapponese.[2]

Quest’ultima, promuovendo il concetto di pro-active contribution to peace, sottolinea come il Giappone intenda diventare un security provider in Asia Orientale, capace di perseguire i propri interessi di sicurezza e stabilità non soltanto in collaborazione con gli Stati Unutu, ma anche in modo autonomo.

Queste riforme non esauriscono l’agenda di Abe, che prevede ulteriori passi verso il superamento progressivo dell’approccio pacifista.

Il prossimo passaggio dovrebbe essere la riforma delle linee guida dell’alleanza con gli Stati Uniti. Questo documento è fondamentale perchè definisce la divisione dei ruoli all’interno della tradizionale allenza bilaterale. Le linee guida sono state modificate in passato solo due volte, nel 1978 e nel 1997. Abe punta ora a rafforzare ulteriormente la partnership militare con Washington, ma al tempo stesso a trasformarla. Il nuovo documento includerà probabilmente due novità molto rilevanti: la globalizzazione dell’alleanza ovvero, forme di cooperazione militare in aree diverse dall’Asia Orientale, e poi una maggiore integrazione per affrontare le capacità “anti-accesso” [3] sviluppate dalla Cina.

La globalizzazione dell’alleanza è la naturale conseguenza dell’espansione del ruolo giapponese oltre la propria regione. Negli ultimi anni, anche seguito dei problemi con i vicini asiatici (certamente la Cina, ma anche la penisola coreana), il Giappone ha avviato nuove forme di cooperazione strategica con India, Australia, Francia e Inghilterra. Abe, nel suo viaggio in Medio Oriente dello scorso gennaio ha promosso una nuova partnership strategica anche con Israele e offerto un contributo finanziario ai Paesi che combattono l’ISIS.

Probabilmente proprio questo impegno diplomatico e finanziario ha dato luogo alla rappresaglia dell’ISIS nei confronti dei due cittadini giapponesi.

Ciò aiuta a capire perchè la crisi degli ostaggi contribuisce a polarizzare il dibattito domestico in tema di politica estera. Il senso di vulnerabilità generato dalla vicenda ha dato luogo ad una finestra di opportunità per accelerare il percorso verso la rimozione degli ostacoli legali che limitano l’azione di Tokyo in materia di politica estera e difesa. Non sarebbe la prima volta in cui lo shock derivato da una crisi viene sfruttato per promuovere una politica più attiva in materia di difesa e sicurezza. L’esempio più recente è la crisi degli ostaggi in Algeria del gennaio 2013. In precedenza, duramente l’era Koizumi, la questione dei rapimenti di cittadini giapponesi da parte del regime nord coreano era stata uno dei temi centrali della campagna dei conservatori per superare i limiti del pacifismo post-bellico.[4]

Durante e dopo la crisi più recente, Abe ha fatto notare come il governo non potesse prendere considerazione un’azione militare: le leggi giapponesi non permettono al Primo Ministro di schierare truppe all’estero senza una risoluzione ad hoc approvata dalla Dieta. Inoltre, il Giappone non possiede intelligence o capacità militari tali da rendere possibile una missione di salvataggio in un territorio remoto e poco accessibile. Tokyo avrebbe dovuto chiedere a Stati Uniti, forse Gran Bretagna o Israele, di liberare gli ostaggi al suo posto. Questo mette in evidenza, secondo i conservatori, la necessità di adattare le leggi giapponesi ai tempi e alla complessità delle minaccie contemporanee.

La crisi degli ostaggi tuttavia fa emergere anche come il rinnovato attivismo giapponese comporti il coinvolgimento in teatri geograficamente remoti e instabili, e che ciò possa creare pericoli per l’incolumità dei cittadini giapponesi.

Un altro rischio è legato alla percezione dell’identità e del ruolo giapponese nel resto del mondo. Il Giappone ha sempre legato il proprio ruolo internazionale all’identità di primo Paese non occidentale di successo, in grado di proporsi come esempio ai Paesi in via di sviluppo. In certo modo, l’episodio degli ostaggi segnala il fallimento di questa narrativa. Il Giappone è stato descritto dai terroristi semplicemente come uno degli alleati degli Stati Uniti e di Israele. Oltre a esporre i cittadini giapponesi alle minaccie terroristiche, ciò mette in crisi una delle idee centrali per la politica estera di Tokyo: la possibilità di presentarsi ad altri Paesi asiatici, medio-orentali e anche africani come partner privilegiato proprio in virtù della propria identità non occidentale e del proprio approccio “soft”, caratterizzato da assenza di condizionalità, aiuti allo sviluppo, tolleranza, riufiuto della violenza.

L’ISIS, considerando il Giappone di fatto “occidentale”, ha smentito questo senso di unicità e di presunta empatia tra Paesi non occidentali, che contribuiva in modo decisivo a legittimare il (finora limitato) coinvolgimento giapponese in Medio Oriente.

In conclusione, nel medio termine il risultato politico della crisi potrebbe non essere favorevole ad Abe e alla sua agenda politica ispirata alla normalizzazione e “globalizzazione” della politica estera giapponese. La barbara uccisione dei due ostaggi potrebbe aprire un dibattito più profondo e complesso sul ruolo giapponese in Medio Oriente e sulla necessità di redefinire l’unicità giapponese nei confronti dei Paesi non occidentali.


[1] La costituzione giapponese affida ad un organo politico-burocratico, il Cabinet Legislative Bureau, l’interpretazione autentica della Costituzione, non alla Corte Costituzionale.

[3] Le cosiddette capacità anti-access area denial sono quelle capacità militari funzionali a negare all’avversario l’accesso di un teatro bellico.

[4] La storia di Megumi Yokota, rapita dalla Corea del Nord nel 1977 è diventata il simbolo della necessità di difendere i cittadini giapponesi, anche a costo di superare i vincoli del pacifismo post-bellico. Questa storia è anche diventata un film di successo in Giappone.