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L’instabilità del Sahel e il rischio di “somalizzazione”

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La situazione in Mali, e per estensione in tutto il Sahel, potrebbe essere analizzata sotto quest’interrogativo: somalizzazione o talebanizzazione? In un caso o nell’altro ci sarebbe poco da rallegrarsi, eppure – facili ironie a parte – il quesito permette di delineare gli scenari futuri di una regione non solo altamente instabile, ma cruciale per le sorti della lotta al terrorismo.

Il Sahel ha visto compiersinegli ultimi cinque anni ben quattro colpi di stato: Mauritania (2008), Niger (2010), Costa d’Avorio (2011) e appunto Mali (2012). In molti di questi stati i tuareg rappresentano una minoranza tanto negletta quanto indomita, al punto che in Mali le rivolte del popolo nomade, prima della recente conquista del nord del paese con la successiva proclamazione unilaterale dell’Azawad, erano esplose nel 1962-64, nel 1990-1995 e nel 2007-2009.

Tuttavia nessuna di queste crisi era stata preceduta, come l’ultima, dall’effetto domino delle primavere arabe e soprattutto della guerra libica. Ecco la scintilla che ha provocato flussi di rifugiati – le cifre ONU parlano di un esodo di circa novecento mila persone lungo tutto il Sahel – e di piccoli eserciti molto ben equipaggiati.

Un simile quadro regionale, cronicamente destabilizzato, può quindi portare in due direzioni. O verso la somalizzazione generalizzata, con la nascita di molteplici centri di potere, con l’egemonia crescente di bande armate, e con una serie d’interventi occidentali a contrasto di scarsa efficacia. O verso la talebanizzazione, con l’ascesa di forze islamiste, se non completamente coese comunquetatticamente alleate, che impongano la shari’a sugran parte del Sahel e con le probabili reazioni dell’Occidente e delle forze africane dell’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale).

Nell’immediato sembra più calzante il riferimento al Corno d’Africa, anche se il paragone afganorimane latente e guadagna terreno con il proliferare di sigle radicali che vogliono contendere il primato sinora detenuto da al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI). Se infatti l’MNLA maliano è una forza laica, sul terreno operano attualmente almeno altri tre movimenti che si rifanno al radicalismo islamico.

Le differenze fra queste fazioni risiedono prima di tutto nell’ascendenza etnica: Ansar Dine, tuareg e malinesi, AQMI su cardine algerino, mentre MUJAO è l’espressione di leadership mauritane. Se il primo e l’ultimo gruppo sembrano in ascesa, AQMI pare invece attraversare un periodo di crisi, probabilmente dovuto al nomadismo forzato, alle defezione degli scissionisti e al minor supporto dei servizi segreti algerini con i quali in passato c’erano stati significativi legami.

Subito dopo il colpo di stato in Mali, infatti, il generale americano al comando dell’Africom e il sottosegretario di Stato per l’Africa sono arrivati ad Algeri per colloqui ai massimi livelli, consapevoli che il paese del presidente Bouteflika è la chiave per la lotta al terrorismo nel Sahel e alla stabilità istituzionale dell’area. Il primo ministro algerino, Ahmed Ouyahia, ha visitato il sud del paese per incontrare le comunità tribali tuareg ed evitare il rischio contagio sull’esempio vittorioso del MNLA. A questa mossa diplomatica si aggiunge lo stanziamento di almeno cinquemila soldati al confine con il Mali.

Il timore è che le comunità tuareg di Algeria e Niger possano aspirare anch’esse all’indipendenza alleandosi strategicamente con il Fronte Polisario del Sahara Occidentale, da tempo in lotta contro il Marocco. Ecco quindi che il quadro della somalizzazione sarebbe plausibile, anche alla luce dei modesti risultati che stanno raccogliendo le cancellerie occidentali e i consiglieri militari americani sparsi tra le varie capitali del Maghreb e del Sahel.

Per ora l’Occidente, e così l’ONU, si sono rifiutati di riconoscere l’indipendenza dell’Azawad. Mentre l’ECOWAS si limita atollerare lo status quo in attesa di organizzare una controffensiva ponendo la regione centrale di Mopti come confine limite all’eventuale avanzata delle truppe tuareg verso il sud e la capitale Bamako. Non sembra questa tuttavia l’intenzione dei ribelli tuareg, che hanno già ribadito il rispetto dei confini vigenti; nemmeno Ansar Dine sembra aver mire espansioniste, dal momento che l’imposizione della shari’a in Azawad rimane la sua principale rivendicazione. Diverso il discorso per il MUJAO, nato non solo come risposta al predominio della componente algerina nell’AQMI, ma come forza più strutturata ideologicamente, che si richiama a leader del passato (ma anche al Mullah Omar, ecco la talebanizzazione incipiente) e non nasconde la volontà di portare l’islam al controllo effettivo dell’intero stato.

Al momento una controffensiva della forze armate del Mali, o di un contingente africano allargato, sembra remota. L’Azawad è una zona sconfinata e riarsa, i tuareg sono combattenti nati e godono di buoni equipaggiamenti (oltre ad essere una popolazione forte di un milione e mezzo d’individui sparsi tra Mali, Niger, Burkina Faso, Algeria e Libia); inoltre nel Sahel è ormai imminente una crisi umanitaria di vaste proporzioni. Le stime ufficiali ONU parlano di un bisogno immediato di viveri per almeno sei milioni di persone e di una carestia in arrivo nei prossimi mesi per almeno quindici milioni. A questi numeri si aggiunga che la guerra tuareg per l’Azawad ha già provocato un esodo di profughi verso il Niger e il Burkina Faso, che si conta nell’ordine delle duecentomila persone.

Nelle condizioni date, il non riconoscimento della comunità internazionale sembra quindi influente, perché i mezzi e le strategie per stabilizzare il Mali, la cui classe dirigente deposta era corrotta e inefficiente (l’attuale presidente di transizione Dioncounda Traoré ne è piena espressione) non sono chiari a nessuno. Non alla Francia, l’ex-padrone coloniale che mantiene nel paese importanti interessi economici, e non all’America, che deve fare di tutto perché il Sahel non diventi un secondo Corno d’Africa.